No alla violazione della Costituzione nel Giorno della Memoria. Le manifestazioni pro palestinesi non possono essere vietate (di Andrea Pubusa)

by Redazione Scuola | 27/01/2024 10:05

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La Giornata della Memoria è sacra per tutti i democratici e le persone per bene. Dobbiamo unirci, ricordare, affinchè un crimine così efferato e ingiustificato come la Shoah non abbia mai più a verificarsi. Occorre mobilitarsi ed essere vigili perchè non si diffonda un odio antisemita e antirazziale in genere. Del resto, la nostra Costituzione pone al centro la persona, senza distinzioni, per il solo fatto di esistere. Chi si colloca nell’ambito della Costituzione non può essere razzista. Non solo, ma chi chiede che si smetta la macelleria sui palestinesi non fa altro che dare applicazione ai principi costituzionali ad inverarli qui ed oggi. Siamo contro la macelleria e la devastanzione in ogni luogo e per la pace sempre.
Lo siamo anche per i palestinesi. Come fa dunque la Comunità ebraica italiana a chiedere il divieto delle manifestazioni pro-palestinesi nel Giorno della Memoria? E come fa il Ministro degli interni a diramare una circolare in cui invita i Questori a valutare la possibilità del divieto, senza leggere l’art. 17 Cost.? Il Ministro evoca una possibile svalutazione della Giornata, istituita con legge. Richiama le delibere dell’ONU. Sennonchè la Carta ammette il divieto della manifestazione solo nel caso sussistano “comprovati motivi di incolumità e sicurezza pubblica“, “comprovati“, cioè ragioni basate su accadimenti acclarati e indiscutibili. Neppure la Comunità ebraica invoca questi fatti per chiedere il divieto, richiama un preteso e tutto soggettivo antisemitismo. Siamo in piena, flagrante violazione dell’art. 17 Cost. E se cade o si allenta il rigoroso rispetto della Legge fondamentale, nessuno può sentirsi tranquillo, neanche e tantomeno gli ebrei.

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L’importanza di una coalizione (di Roberto Mirasola)

by Redazione Scuola | 03/01/2024 10:55

Le dichiarazioni di Soru non possono che lasciare sbigottiti. Soru senza nessuna remora afferma che i cinque stelle sono di destra e a sostegno di questa tesi ricorda che la prima volta che i cinque stelle sono andati al governo l’hanno fatto con Salvini. Siamo rimasti, di fatto al giugno 2018 e da lì non ci siamo più spostati. La realtà però non è quella che si vuole descrivere, ma un’altra. È un dato di fatto, sotto gli occhi di tutti, l’evoluzione in positivo del movimento che ha governato, e bene con il PD, Leu e Italia Viva nel Conte 2. La verità, è che ci sia una precisa volontà politica che non voglia riconoscere questo dato di fatto per motivi ben precisi, che cercheremo di spiegare facendo un salto nel passato.

La crisi del governo Conte bis è stata determinata da Matteo Renzi, leader di Italia Viva, con le dimissioni delle Ministre Teresa Bellanova e Elena Bonetti. Renzi ha sempre ostacolato i cinque stelle e lo ha fatto con motivi ben precisi. Non dobbiamo dimenticare la riforma Costituzionale Renzi-Boschi che ha visto come forti oppositori proprio i cinque stelle, mentre il PD allora guidato dallo stesso Renzi muoveva un pericoloso attacco alla Costituzione. Attacco certamente non casuale se leggiamo il famoso documento datato 2013 della banca d’affari statunitense JP Morgan, che qui riportiamo : “ I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza delle idee socialiste”. E cita, tra gli aspetti problematici, la tutela garantita ai diritti dei lavoratori. Il 4 dicembre 2016 la riforma fu bocciata dai cittadini con un referendum, ma per i diritti dei lavoratori poco si è potuto fare vista la riforma Renziana del Jobs Act. Non dimentichiamo, poi, i rapporti tra politica e banche che vide il suo apice nel caso banca Etruria. Una visione di mondo ben precisa, che non si preoccupa delle diseguaglianze ma che fa l’occhiolino con l’altra finanza. Visione condivisa da Renato Soru esponente di spicco del Renzismo.

Chiaro che oggi si ostacoli in Sardegna l’unico progetto alternativo alla destra che ha idee opposte agli eventi prima riportati. Il PD oggi è guidato dalla Schlein che parla di lotta per il salario minimo, di lotta alla diseguaglianze, i cinque stelle sono oggi guidati da Conte e non da Di Maio hanno introdotto come sappiamo il reddito di cittadinanza, unico strumento oggi conosciuto per la lotta alla povertà, i movimenti e le associazioni democratiche, progressiste, socialiste, cattoliche si riconoscono da sempre nei valori dell’antifascismo e della Costituzione, mentre i movimenti indipendentisti hanno compreso che insieme si può lavorare per migliorare le condizioni della Sardegna.

Soru che ha condiviso la riforma Renzi Boschi, il Jobs act, il Mater Olbia in Sardegna e via dicendo non può certo riconoscersi in questo schieramento e dunque l’ostacola auspicando una sua sconfitta che metterebbe, guarda caso, in difficoltà la neosegretaria del PD mentore del campo largo.

Come si vede un disegno nostalgico che ha come antagonista non la destra ma il rinnovamento democratico e progressista che invece vuole voltare pagina con il passato.

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Agitoriu, aiuto! La sinistra sarda è implosa (di Andrea Pubusa)

by Redazione Scuola | 27/12/2023 11:11

Parliamoci chiaro, fuori dai denti! In tutta franchezza in Sardegna la sinistra è implosa. Boom! Mille pezzi! Tanti cocci, nessuna possibilità di ricomposizione, tutto l’opposto di quanto necessario in questo momento. Ci prepariamo alle elezioni regionali. Chi vuol vincere deve puntare all’unità. E l’unità – si sa – richiede una buona capacità e disponibilità al confronto e al dialogo, rispetto. Occorre responsabilità, tenendo conto dell’interesse generale. Basta scorrere la stampa regionale per capire quali sono i temi fondamentali, sanità, scuola, lavoro, ambiente, basi militari, rivisitazione dello Statuto o, meglio, farne uno nuovo, e altro ancora. Di fronte a questa situazione devastata il centrodestra lascia un’eredità disastrosa, ma onestamente – danni non secondari ha provocato anche il centrosinistra.
Ora di fronte a tutto questo occorre anzitutto una riflessione collettiva in vista di un progetto organico e di prospettiva. In un lavoro programmatico c’è ampio spazio per quanti vogliono usare il cervello, badando ai problemi collettivi e non a se stessi. Ma ecco qui il primo ostacolo. Moltissimi nella c.d. Sinistra guardano a se stessi, pensano alla loro collocazione in vista di buscare un seggio. Sorgono così smisuratamente associazioni di vario nome, tutte in fondo prive di proposta programmatica e incentrate sul “leader” promotore alla caccia dell’elezione. Si vedono così uno stuolo di sigle senza seguito fare da codazzo a questo o a quel candidato alla presidenza della Regione, senza alcuna giustificazione generale. In questo contesto è stata creata una contrapposizione da Soru verso la Todde col pretesto della modalità di scelta del candidato alla presidenza. Si tratta di un pretesto perché il vero obiettivo è stato quello di mettere fuori gioco la Todde. Ma questa è una candidata impresentabile? Guardando le cose con razionalità e pacatezza la risposta è negativa. Anzitutto è una donna, è una persona di valore, è mite, garbata, rispettosa ed è fuori dai giochi che hanno diviso, sfasciandolo, negli ultimi due decenni il centrosinistra sardo. E’ una persona che chiude una pagina triste e ne apre una nuova. E dio solo sa quanto questa svolta sia necessaria. Inoltre fa parte di un movimento, che – al di là della follia dei singoli – ha introdotto o reintrodotto in Italia alcuni obiettivi propri della sinistra, la questione morale, l’attenzione verso i ceti subalterni, la difesa dell’ambiente, la pace. Insomma, è una candidata che, senza pregiudizi, rientra bene nel perimetro democratico. Ecco perché l’entrata a gamba tesa di Soru pare smodata e fuori luogo. Mister Tiscali ben poteva avanzare le sue perplessità sulle modalità di scelta, ma non doveva opporre la sua candidatura, che, essendo autocandidatura, è sempre meno democratica di una scelta formulata da altri. Soru, per il ruolo che ha avuto, ben poteva far valere le sue indicazioni programmatiche in seno al suo partito, il PD, e al centrosinistra. E sarebbe stato ascoltato. Le sue idee avrebbero avuto modo di affermarsi ben di più di quanto lo saranno dall’opposizione.
Poi c’è l’accordo di Conte e Schlein sul nome della Todde. Si decide a Roma, anziche’ in Sardegna!, protesta Soru. Ma ricordiamoci che l”unità a livello nazionale è fondamentale per battere la destra, o ci siamo dimenticati che Letta ha regalato alla Meloni la vittoria senza combattere, rifiutando l’alleanza con i 5 stelle? Ogni incremento di unità nel centrosinistra va accolto con favore, se non si vuol lasciare il governo alle destre.
Ora però il patatrac è fatto. Il centrosinistra si presenta alle elezioni regionali diviso. Risultato? Facilmente prevedibile. Tragico. Ci saranno 5 lunghi anni fuori da viale Trento per meditare e, forse, rimediare. Ma per ora dalle nostre parti non si vedono riunificatori o federatori.
E guardate cosa sta succedendo nel mondo. Agitoriu! Aiuto|

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Premierato inammissibile ed eversivo perché contro la sovranità popolare (di Andrea Pubusa)

by Gianfranco Meleddu | 20/12/2023 12:47

Ieri, ad iniziativa della Scuola di cultura politica “F. Cocco”, si è svolto a Cagliari un interessante dibattito contro la proposta di premierato, avanzata dal governo Meloni.  E’ una prima iniziativa in vista della creazione di un ampio e unitario Comitato per il NO.
Ecco una ulteriore riflessione critica sull’argomento.

Da quando sono scomparse le maggiori forze costituenti  (DC, PCI, PSI) ha avuto inizio un sistematico attacco alla Carta, volto a modificarne l’impianto fondamentale. Non solo la destra, anche il PD di Renzi ha fatto la sua parte in questa vicenda. Ma quale il punto centrale dell’attacco? La sovranità popolare e il continuum che assicura alla volontà del corpo elettorale di innervare tutti i gangli decisionali dell’ordinamento. A ben vedere il premierato si muove in questa direzione autocratica. La legittimazione delle potestà delle decisioni viene spostata in capo al premier, sottraendola al parlamento. Finora, secondo la Costituzione, tutti gli organi costituzionali hanno una legittimazione dal basso per il tramite del parlamento: il presidente della Repubblica eletto dalle Camere integrate dai rappresentanti regionali, il governo deve avere la fiducia del parlamento e così via.
Si dirà, anche il capo del governo col premierato è eletto dal corpo elettorale. Ma è evidente che una cosa è dare centralità al parlamento, organo collegiale rappresentativo di tutti i cittadini e delle forze politiche, altra cosa è demandare questa rappresentanza ad un solo uomo, che è espressione unicamente di una parte. Il parlamento decide nel contradditorio fra le diverse parti politiche. Il parlamento raccoglie le istanze dei cittadine e delle comunità e le rappresenta liberamente nelle sue specificità anche politiche. C’è pluralismo nelle libere assemblee elettive. Lì vengono raccolte le istanze delle autonomie locali e del mondo delle associazioni. Tutte cose che il premier non può fare con la stessa profondità e non vuole fare. A lui interessa il popolo come pretesto e strumento per il suo comando. Il parlamento viene depotenziato come i consigli comunali da parte del sindaco d’Italia. Nei comuni è scomparsa quella dialettica democratica, che in passato ha formato migliaia di politici di valore. Un vero e proprio laboratorio, una scuola di democrazia. E il presidente della Repubblica? Perde il ruolo di garante, di organo di equilibrio del sistema.
Ma in questo modo si assicura una migliore governabilità? In effetti ci sono molti argomenti in senso contrario. Si accentua la conflittualità e quindi si rendono meno facili le decisioni.  Si impediscono le convergenze. E la governabilità nasce da queste, non dallo scontro permanente. Insomma, il premierato spezza la centralità del parlamento nell’ordinamento e il ruolo di garanzia del presidente della repubblica, accentra il potere, comprime la sovranità popolare e, quindi il carattere democratico del nostro ordinamento. È il principio della sovranità popolare a innervare la democraticità  del sistema. E’ per questa ragione che molti studiosi ritengomo incostituzionale la modifica della forma di governo parlamentare, poiche’ questa è un carattere fondante del nostro sistema costituzionale, non modicabile neanche per via di revisione con la procedura di cui all’art. 138 Cost. È la stesso discorso che si fa per i diritti e le libertà fondamentali che sono immodificabili in peus. Si possono solo ampliare, ma non restringere. Restringerli è eversione perché delinea un ordinamento diverso ed opposto a quello voluto dai costituenti e trasfuso nella Carta. Anche il premieraato lo è per la stessa ragione.

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Premierato e conseguenze sul sistema democratico (di Fernando Codonesu)

by Redazione Scuola | 18/12/2023 16:10

Il premierato di Meloni va respinto completamente.

I riflessi di questa riforma “eversiva” della Costituzione attengono alla stessa forma repubblicana dell’Italia. Personalmente penso che la forma repubblicana, la repubblica parlamentare, come prevista nella nostra Costituzione, a rigore non potrebbe essere cambiata neanche dalle leggi di revisione previste dall’art. 138, ma avrebbe bisogno di un percorso diverso, come quello di una vera e propria costituente.

Però non pare proprio che il Governo si preoccupi di rispettare la sostanza delle cose e il significato più profondo e sostanziale della nostra Carta. L’unico aspetto che interessa è occupare tutto il potere, in ogni sua forma, connotazione, posizione, luogo decisionale o di influenza diretta e indiretta.

Nello specifico della riforma del Premierato all’italiana, non c’entra l’esigenza di maggiore stabilità né del Governo né della maggioranza eletta, come si dice nella presentazione della riforma.

Infatti, questa maggioranza ha già su di sé il massimo della concentrazione del potere e la riforma costituzionale del Premierato, unica nel suo genere in tutto il mondo democratico, ne legittimerebbe ancora di più i suoi effetti distruttivi del sistema democratico.

Le reti TV pubbliche sono tutte controllate dal Governo Meloni e i vari dirigenti ostentano e dichiarano tutta la loro “fierezza e orgoglio” di partito anche nel loro ruolo di dirigenti di un’azienda, la RAI, che sulla carta dovrebbe garantire un servizio pubblico.

Le televisioni private di proprietà della famiglia Berlusconi sono totalmente allineate al potere governativo da oltre 30 anni e oggi più che mai si reggono sul principio che il manovratore può essere solo lodato, mai criticato.

A proposito di Solo le lodi sono gradite, si assiste sempre più spesso alla messa all’angolo di ogni voce di dissenso e di critica, comprese quelle delle autorità indipendenti, che vengono silenziate o ridotte all’irrilevanza. Al riguardo basti pensare al ruolo della Corte dei Conti e all’Autorità anticorruzione con i recenti provvedimenti governativi intervenuti sulle osservazioni fatte al PNRR, alla legge sugli appalti e al controllo contabile delle Regioni.

Il governo Meloni è un governo pericoloso per la democrazia e, a mio parere, se ne sta sottovalutando la portata dei cambiamenti reali già intervenuti nel tessuto democratico in questo anno di esercizio del potere.

Il Governo manifesta ed esprime anche brutalmente una bulimia del potere quasi che il voto avesse decretato l’annullamento delle opposizioni e delle forme varie di lotte sociali, prima fra tutte il diritto di sciopero con la prassi ripetuta delle precettazioni.

In effetti, a ben guardare cosa sta succedendo c’è una evidente convergenza tra quello che era il programma della P2 di Licio Gelli e la prassi attuale del Governo, anche se va rimarcato che l’utilizzo sconsiderato della decretazione d’urgenza e dei viti di fiducia hanno caratterizzato la nuova fase della politica italiana già dai primi anni della cosiddetta seconda repubblica.

D’altronde, a suo tempo, ricordo che già Berlusconi aveva proposto che il parlamento non fosse utile e facesse perdere solo tempo. Nella sua bieca concezione del suo fastidio per la democrazia parlamentare aveva proposto che le leggi dovessero essere votate dai Capi gruppo dei partiti, altro che Commissioni e dibattito parlamentare!

E ora?

Ora si inviano proposte alle Camere che non possono essere né discusse né emendate.

Siamo in democrazia o in una situazione in cui il Governo esercita il comando che è altro dal governare con il rispetto dei ruoli tra maggioranza e opposizione?

Dal mio punto di vista, il Premierato dovrebbe essere analizzato e valutato anche nel suo rapporto a tratti perverso con l’Autonomia differenziata.

Al riguardo, da più parti si tende a rimarcare una presunta divaricazione tra l’Autonomia differenziata portata avanti da Calderoli per la Lega e la riforma del Premierato, voluta da Meloni a differenza dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica che faceva parte del programma elettorale del centrodestra, meglio sarebbe dire “destradestra”.

Sinteticamente si dice che la prima tende alla disgregazione dell’Italia a vantaggio delle regioni più ricche (vero) che avrebbero una maggiore autonomia, mentre la seconda tende all’accentramento del potere in mano al Governo centrale (pure vero).

Apparentemente sembra quindi che ci sia una contraddizione insanabile tra le due proposte e che le stesse possano essere classificate come antitetiche, per cui ci sarebbe il rischio di un loro annullamento reciproco, in quanto inapplicabili.

E’ davvero così?

Come ha giustamente osservato Alfiero Grandi su http://www.democraziaoggi.it/?p=8436, del 16 dicembre, si può trovare invece un filo conduttore tra le due proposte, ovvero entrambe sono a totale vantaggio del sistema esecutivo nei confronti del legislativo.

Così è per il Premierato che concentra il potere nelle mani del Presidente del Consiglio eletto direttamente, con il conseguente annullamento del potere legislativo, il parlamento, che viene chiamato solo a ratificare il comando del premier quando tale comando si esplica in forma di decreti legge e voti di fiducia.

Così avviene anche con la proposta di Autonomia differenziata perché l’istituto dell’intesa è frutto solo dell’accordo tra il Governo (potere centrale oggi esecutivo, ma che sussumerà sostanzialmente anche quello legislativo con il Premierato) e il Presidente della Giunta della Regione che chiederà l’autonomia differenziata: due poteri centralizzati che decidono a discapito del potere legislativo nazionale, il primo, e del Consiglio regionale, il secondo.

In entrambi i casi c’è la codifica all’ennesima potenza della prevalenza dell’esecutivo sul legislativo: una disgrazia per la democrazia, perché si altera irreversibilmente l’equilibrio dei poteri.

Le conseguenze nefaste per la democrazia italiana sono molteplici e qui ne indico tre che ritengo dirimenti:

  • tutto il potere sul Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo, a scapito dell’equilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario;
  • un parlamento totalmente esautorato nelle sue prerogative e quale depositario “pro tempore” della volontà popolare (sovranità popolare) espressa attualmente con il voto dai cittadini;
  • il Presidente della Repubblica che diventa un semplice passa carte, costretto ad accettare supinamente le decisioni del potere più forte in capo a quello che si chiamerà a tutti gli effetti “Premier”.

Bisogna analizzare attentamente questa riforma del Premierato meloniano, contrastarla nel merito e attrezzarsi adeguatamente per il referendum prossimo venturo.

Per questo, come Scuola di cultura politica, abbiamo preparato l’iniziativa il 19 dicembre, alle 17.30, presso la Fondazione di Sardegna. Iniziativa che presentiamo come un’occasione di discussione, approfondimento e proposta politica per le future necessarie mobilitazioni a difesa della Costituzione.

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Il perché di una candidatura (di Roberto Mirasola)

by Redazione Scuola | 11/12/2023 08:44

In quest’ultimi mesi abbiamo visto il proliferarsi di iniziative volte a presentare vari movimenti politici con nomi più o meno suggestivi e con richiami a novelle rinascite della Sardegna o evocativi di rivoluzioni più o meno gentili. Non si discute la capacità di chi si fa portatore di tali proposte, ma è legittimo chiedersi quale possa essere la prospettiva politica. Si è in grado di costruire un’alternativa che possa essere vincente non solo in Sardegna ma anche in Italia financo ad arrivare in Europa? Ecco a me sembra che i limiti di tali movimenti siano questi, una prospettiva solo sarda senza una visione né nazionale né Europea, come se la Sardegna fosse un’isola fuori da ogni contesto.
A questo punto è opportuno ricordare come si è arrivati a costruire la coalizione di csx. All’indomani della sconfitta alle politiche del 2022, qualcuno in Sardegna ha iniziato a fare della buona politica. Ci si è chiesti come poter essere alternativi alle destre che nel frattempo non si son fatte scrupoli di portare avanti politiche liberticide con un’idea sovranista che vede il suo asse portante in Marie Le Pen o nei paesi Visegrad. Con il Presidente della nostra amata Regione impegnato a recitare il ruolo di vassallo di questa infelice visione. Ci si è messi, dunque, al lavoro con l’obiettivo di costruire un’alleanza tra culture democratiche, autonomiste, indipendentiste, progressiste, socialiste e cattoliche che avessero la capacità e la volontà di riprendere il dialogo interrotto con il movimento cinque stelle. Percorso che inevitabilmente costituisce l’unica prospettiva percorribile se si vuole dare un’ alternativa sia alla Sardegna che all’ Italia. La buona politica è consapevole che niente è statico e si rifiuta di ragionare ideologicamente, questo ha consentito di comprendere che i cinque stelle, ad esempio hanno avuto l’intuizione di introdurre il reddito di cittadinanza che si è dimostrato uno strumento utile a contrastare la povertà. Finalmente una politica di redistribuzione del reddito. Si obietterà ma quello non era l’intento, forse, però ha aiutato tante famiglie in difficoltà. Altra sicura obiezione, ma i cinque stelle sono quelli delle ONG taxi del mare. Io stesso ho scritto al riguardo ma devo riconoscere che quello era il governo del Conte 1, la contaminazione con il pensiero progressista e democratico ha portato ad una diversa visione. Se poi vi sono ancora delle perplessità al riguardo, faccio notare che un’adeguata presenza di movimenti e associazioni di sinistra riequilibrano tale pericolo.
Conosciamo bene le dinamiche che hanno portato alla rottura nazionale, ma è indubbio che ci sono state forze capaci di riaprire il dialogo proprio in Sardegna, costruendo con fatica un laboratorio con l’obiettivo preciso di battere le destre. Pertanto, questo processo ha origini ben prima del 7 luglio, data che deve essere vista non come un inizio ma come il risultato di un lungo e difficile percorso. La Politica si è riappropriata del suo ruolo di mediazione tra le Istituzioni e i cittadini facendo sintesi nel nome di Alessandra Todde, chiamata a rappresentare le culture pima elencate. Unità e diversità visti come una ricchezza. Purtroppo, come spesso accade nello stesso giorno in cui nasce una coalizione nascono con essa anche le polemiche, le recriminazioni, i malumori che cercano di riproporre un passato che seppur nobile e con aspetti positivi non propone un’alternativa al di fuori della Sardegna. Ma la Sardegna sta in Italia e soprattutto in Europa e vuol dare il suo contributo. Se la coalizione del csx vince le elezioni, il messaggio è forte e la rivoluzione, non più gentile, accenderebbe la speranza e la convinzione che la destra possa essere battuta ovunque perseguendo un modello ben preciso. Gli altri che si pongono al di fuori di questo ragionamento quali prospettive hanno?

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Cambiare la legge elettorale sarda (di Gianni Pisanu)

by Redazione Scuola | 02/12/2023 15:22

La Legge Elettorale è sempre quella.

La questione irrisolta della Legge elettorale si ripropone sempre quando è ormai troppo tardi. Le elezioni regionali sono vicine. Ritengo che una discussione sul tema possa comunque costituire un’opportunità da prendere in considerazione per tutti gli schieramenti. Le criticità che destra, sinistra, partiti, movimenti, che di volta in volta vengono premiati o danneggiati, dopo ogni scrutinio puntualmente evidenziano, ripropongono la necessità di porre mano ad una nuova legge elettorale. Ancora una volta la cosa, irrisolta, riemerge in procinto delle elezioni.

una vecchia LEGGE 8 MARZO 1951, n.122, (Legge Elettorale Provinciale)

https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/19/0923_PROVINCIALI_Layout_1.pdf

nella prima parte, al titolo COME SI ELEGGE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO PROVINCIALE, e al titolo COME SI ATTRIBUISCONO I SEGGI DEL CONSIGLIO PROVINCIALE, dettava le norme che per oltre 60 anni hanno funzionato. Lo schieramento collegato al presidente eletto aveva diritto al 60% dei seggi consiliari. Attorno alle modalità di elezione (proporzionale con collegi uninominali e premio di maggioranza) si sviluppa molta parte di questo appunto, con modifiche, aggiunte e soppressioni.

Alcuni dei punti sui quali si potrebbe intervenire.

Maggioranza assoluta alla coalizione vincente? Personalmente propendo per il NO, ma si potrebbe optare per un premio sulla base del risultato conseguito, es. attribuire una maggiorazione – comunque niente a che vedere con i famigerati listini – sui seggi conseguiti alla coalizione più votata;

Turno Unico ed elezione diretta del Presidente;

Collegi plurinominali;

Nessuna soglia;

Alcune considerazioni.

Fra le criticità e i danni della legge elettorale regionale in vigore ricordiamo il caso di Michela Murgia con decine di migliaia di voti rimasta fuori dal consiglio regionale; la suddivisione in collegi che ricalcano le vecchie province con qualche provincia/collegio che conta un numero di abitanti anche dieci volte maggiore rispetto a quelle più piccole; la difficoltà di applicazione con frequenti contenziosi che spesso si protraggono per tutta la legislatura e con attribuzioni e revoche di seggi sia nell’ambito dello stesso partito, che fra partiti diversi, e talvolta interessano candidati di province diverse; la presenza di soglie di sbarramento diversificate fra liste singole o coalizzate, adottate furbescamente per avvantaggiare taluni e danneggiare o escludere altri; il frequente verificarsi di gravi sperequazioni nell’attribuzione allo schieramento del presidente eletto del 60% dei seggi prescindendo dai voti alle liste collegate.

Nonostante la vicinanza delle elezioni possa contribuire a relegare la legge elettorale fra le varie ed eventuali, sono convinto del contrario, e che lo stato delle cose dipenda dallo scarso appeal dell’argomento e dalla noiosità del lavoro necessario. Se si vuole modificare una situazione in cui la virtù principale in politica si chiama posizionamento, occorre che la politica, e subito la parte progressista dia corso ad incontri che abbiano come oggetto con la legge elettorale il lancio di una fase politica che veda riconosciuta nei fatti la pari dignità di tutte le componenti politiche e movimenti che potranno, se l’iniziativa avrà successo, contare su uno strumento NEUTRO, che affrancherà i protagonisti da condizionamenti o tatticismi. Il successo dell’iniziativa, nella migliore delle ipotesi dovrà passare dalla discussione approfondita in ambito progressista allargato, e una volta definito nelle linee caratterizzanti, essere portato alla discussione sperabilmente proficua e alla stesura di un testo condiviso con tutte le forze politiche regionali. Il coronamento sarebbe l’approvazione nella prima parte della prossima legislatura poiché non oso sperare in tempi più ravvicinati.

Fra le cose che mi pare siano auspicabili ci sono il superamento della suddivisione del corpo elettorale in collegi provinciali e la formazione di collegi plurinominali omogenei per numero di elettori, es: 12 collegi di 5 seggi ciascuno per un totale di 60 componenti l’Assemblea regionale; l’abolizione delle soglie di sbarramento oppure una soglia del 2% che poi è la stessa cosa; l’utilizzazione dell’intera cifra elettorale regionale per la individuazione dei quozienti/seggi a ciascun partito o coalizione, evitando del tutto la dispersione dei voti e dei resti; voto di preferenza; abolizione del voto disgiunto;

Un discorso approfondito dovrebbe riguardare la scelta fra una ripartizione proporzionale integrale o la possibilità di dotare la coalizione del presidente eletto di un premio di governabilità non superiore al 8% ovvero 5 seggi oltre quello presidenziale. Resta inteso che comunque non si tratterebbe di un “listino di paracadutati” ma di candidati della coalizione del presidente maggiormente premiati dal voto.

Un accenno all’attribuzione dei seggi. Ciascuna lista sia singola che facente parte di una coalizione dovrebbe presentare in ciascun collegio 5 candidati (di cui minimo 2 per genere), ciascuna coalizione sulla base dell’intera cifra elettorale regionale avrebbe diritto al relativo numero di quozienti/seggi che verrebbero ripartiti fra le varie liste della coalizione sulla base della cifra elettorale regionale di ciascuna lista. L’assegnazione di seggi ai singoli candidati avverrebbe sulla base del miglior quoziente in ordine decrescente nell’ambito regionale, e nell’ambito del singolo collegio al candidato con maggior numero di preferenze. Potrebbe verificarsi il caso di collegi con più o meno eletti rispetto alla media di 5 consiglieri per collegio, ma questa sarebbe la conseguenza minima della perfetta rispondenza della composizione dell’assemblea al risultato elettorale sotto il profilo politico complessivo.

In quanto al collegio plurinominale, potrebbe rivelarsi un formidabile strumento per ricreare un forte rapporto fra elettorato attivo e candidati espressione del territorio, in quanto nel bacino elettorale costituito dal singolo collegio, di dimensioni contenute, l’elettore avrebbe di fronte un’offerta ben riconoscibile sia sotto l’aspetto dell’affinità politica sia del valore dei singoli candidati, 5 per ciascuna lista in ogni collegio.

La formazione dei collegi si realizzerebbe superando l’attuale criterio delle circoscrizioni corrispondente alle province e dividendo per 12 il numero degli abitanti della Regione Sardegna, con la possibilità di discostarsi del 10% in più o in meno della media, con il limite per le aree a maggiore densità dove i relativi collegi non dovrebbero superare la media regionale, cosa possibile per le aree a minore densità.

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Una scelta per la scuola, sempre più povera, tra inclusione e dispersione, dimensionamento e PNRR (di Gabriella Lanero)

by Redazione Scuola | 23/11/2023 16:28

L’articolo si propone come un contributo alla discussione e all’analisi riguardo uno degli aspetti cruciali in vista delle scelte future per lo sviluppo della Sardegna e la nostra democrazia: il diritto allo studio fra competenze dello Stato e della Regione.

Il dimensionamento, ultimo taglio
   Il dimensionamento, cioè l’innalzamento del parametro per l’istituzione scolastica autonoma, sino a 1000 alunni (deroga a 900), in luogo del precedente che prevedeva 600-400, è solo l’ultimo degli interventi di riduzione e di taglio che stanno cancellando la scuola della Costituzione.
Siamo passati da un modello di scuola, motore di emancipazione sociale, rimozione degli ostacoli, in funzione della crescita della persona e del paese, modello che, a partire dagli anni 70 del ‘900 era stato implementato dalla spinta di una società civile, dalla ricerca socio-pedagogica, interpretata da scelte politiche di investimenti: tempo pieno, sostegno per l’ inserimento dei disabili, diritto allo studio anche per i lavoratori e gli adulti, Scuola di specializzazione per insegnanti per ricordare alcuni esempi. Questa scuola della Res publica era pensata come bene comune e come servizio indispensabile, diritto all’istruzione che obbligava i cittadini e lo Stato.
Dalla fine degli anni 90 e poi nel corso del 2000 si è affermato un modello liberistico di scuola del merito, selettiva, che riproduce differenze sociali segnate da una sempre più marcata polarizzazione. si è parlato di “offerta formativa”, opportunità per chi la volesse cogliere, a scelta delle famiglie, in cui la scuola privata integrava l’offerta dallo stato, ridotta progressivamente dagli interventi di razionalizzazione, riduzione, tagli: del tempo, delle classi, dei docenti. Ora è la volta del dimensionamento scolastico: dopo l’innalzamento del numero degli alunni per classe e la riduzione dell’organico dei docenti, si innalzano i parametri per l’assegnazione dei Dirigenti scolastici e Direttori dei servizi amministrativi.
In Sardegna, cadute le minacce di opposizione e di ricorso dell’assessore Biancareddu, la Giunta Regionale ha deliberato il piano di dimensionamento che ostenta il successo della riduzione di 42 autonomie. Si dovrà procedere all’accorpamento dei “punti di erogazione “ del servizio scolastico per costituire 228 Istituzioni Scolastiche autonome con cui si rientrerà nel contingente assegnato di organico dei dirigenti scolastici e DSGA. Ciò comporterà la riorganizzazione delle scuole con meno di 400 alunni con scuole dello stesso comune o di comuni viciniori, per la creazione di un nuovo istituto con “non più di 1300-1200 alunni”. Apparentemente nessun obbligo relativo a alunni per classe o numero classi, solo un contingente di organico che obbliga a scelte secondo criteri e parametri prefissati, perché, se si concede la deroga dei 900 in una zona, sarà necessario costituire degli istituti superdimensionati in altra.
Già oggi, per esempio, l’Istituto comprensivo di Samugheo è suddiviso in 11 plessi di infanzia, primaria e sec. I° su un territorio di 8 Comuni. All’anno della sua costituzione, nel 2012 aveva 650 alunni . Gli alunni iscritti ai vari plessi delle scuole primarie sono attualmente 296.
Quanti comuni potrebbe comprendere un istituto comprensivo con l’applicazione dei nuovi parametri?
Come potrà funzionare un’autonomia scolastica il cui dirigente, per progettare e realizzare interventi adeguati a contesti differenti e non sempre vicini , alla domanda delle famiglie (come previsto nel Dpr 275/99, Regolamento dell’autonomia scolastica), debba interagire con amministratori locali di 10 o 15 comuni?
Il problema si pone con più forza se consideriamo il dovere di adeguare gli interventi “alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti per interventi mirati allo sviluppo della persona umana, al fine di garantire loro il successo formativo e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento.

Bisogni educativi fra inclusione e povertà
   Compito della scuola è la risposta ai bisogni educativi, l’inclusione basata sul riconoscimento delle differenze e del dare a ciascuno in modo diverso a seconda di ciò di cui ha bisogno.
Questa risposta avviene a partire dai bisogni educativi di base, senza la cui soddisfazione non c’è possibilità di sviluppo successivo. Nel percorso dell’obbligo si affrontano perciò bisogni relativi all’imparare, bisogni di autonomia, di appartenenza sociale, di sicurezza affettiva, del riconoscimento di sé in relazione con gli altri, e si deve garantire lo sviluppo delle competenze chiave, base della cittadinanza.
In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni. La normativa, a partire dal 2012 ha introdotto la sigla e il concetto di BES, bisogni educativi speciali: oltre quelli “certificati” dell’area della disabilità e l’area dei DSA, disturbi specifici di apprendimento e ADHD disturbi dell’attenzione o di comportamento, che sono riconosciuti in base ad una diagnosi, sono considerati anche quelli di una terza area di alunni i cui bisogni sono legati a svantaggio economico socioculturale. Si tratta di una fascia sempre più ampia e d’altra parte, anche i bisogni legati alla disabilità alle difficoltà si apprendimento o di comportamento sono amplificati, se si proviene e si è inseriti in contesto familiare disagiato o che offre poche opportunità.
La compensazione della scuola non basta: il rischio è che l’inclusione si riduca solo a piani sulla carta, e che la certificazione e il riconoscimento siano solo un sancire le differenze. Quale compensazione può infatti costituire la scuola, senza mezzi sufficienti per rimuovere gli ostacoli, rispetto a quella che è povertà educativa, cioè la situazione di un bambino che cresce in contesti privi di opportunità culturali, ma soprattutto povertà, cioè la condizione di crescere in contesti di precarietà economica, precarietà occupativa dei genitori, precarietà abitativa? Spesso si tratta di contesti dove i ragazzi sperimentano violenza, illegalità che a volte si manifestano in comportamenti aggressivi, nel rifiuto delle regole, nella mancanza di motivazione che li lasciano ai margini delle relazioni scolastiche e dei percorsi di apprendimento.

Dispersione e divari territoriali del sottosviluppo
   Le rilevazioni degli apprendimenti condotte annualmente dall’Invalsi, i dati sui risultati scolastici, sull’abbandono, sui titoli di studio, mostrano in modo evidente la correlazione fra dispersione implicita, esplicita e contesto socio-economico e culturale di provenienza evidenziando la trasversalità dovuta a differenze socioculturali. I dati rispecchiano peraltro differenze fra città e aree interne, fra centri e periferie, differenze territoriali e, ricondotti a macro regioni e regioni, ci parlano del Sud e delle isole, e in particolare della Sardegna, come aree di sottosviluppo.
Le tabelle dei dati regionali sulla dispersione sono chiaramente sovrapponibili a quelle sui dati della povertà, ma anche a quelle che illustrano una serie di carenze nelle strutture scolastiche e nelle infrastrutture.
Il rapporto 2022 Save The children sulla dispersione dedica un’analisi dettagliata alle disparità nella distribuzione territoriale dell’offerta di tempi, servizi e spazi adeguati, come mensa scolastica, tempo pieno, palestra e agibilità degli edifici, che penalizzano, molto spesso, proprio le province, in particolare del sud, dove si concentrano maggiormente i minori più svantaggiati dal punto di vista socio economico.
“La scuola italiana è meno equa nelle aree più disagiate del paese (in particolare nelle regioni del sud), dove i risultati sono molto diversi anche tra scuola e scuola, o tra classe e classe”, si legge in sintesi nel Documento sulla dispersione prodotto nel 2022 dall’autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza.
Come si esce dal circolo vizioso che inserisce la scuola fra povertà e sviluppo?
Sarebbe fondamentale aumentare significativamente, più che diminuire, le risorse per l’istruzione, portandole al pari della media europea (5% del PIL), concludeva il Rapporto Save the Children nel 2022. “È evidente, infatti, che i fondi attualmente previsti sono già oggi insufficienti a garantire un’offerta educativa di qualità, con spazi e servizi adeguati in tutti i territori, nonostante i minori costi dovuti al calo demografico. Investire il 5% del PIL vorrebbe dire rendere disponibili circa 93 miliardi, contro i circa 71 stanziati nel 2020”.

I finanziamenti dei FSE e il PNRR, il rischio di dispersione dei fondi e delle opportunità
   Che per fare la differenza sia indispensabile potenziare l’offerta scolastica e la sua qualità con investimenti significativi è una consapevolezza confermata anche dai piani di investimenti FSE PON e del PNRR.
In particolare questi ultimi -ma già in Sardegna il progetto Iscol@ Tutti a Iscol@ 2019-20- prevedono l’inserimento di risorse e l’attuazione di programmi per gli obiettivi di ridurre i divari territoriale e intervenire sulla dispersione.
I bandi rivolti ai Comuni e alle scuole vanno nella direzione di reinserire quelle modalità di fare scuola che nel modello liberistico degli anni 2000 sono state progressivamente tagliate: apertura pomeridiana delle scuole con tempo pieno e mense, strutture sportive; nuovi edifici scolastici e ristrutturazione di spazi; interventi a favore di alunni disagiati, moduli di recupero per gruppi con tutor e docenti dedicati.
Da tempo i finanziamenti europei, essendo la Sardegna inserita di nuovo nell’obiettivo 1, costituiscono gli unici su cui si fa affidamento e gli unici resi disponibili al Ministero all’Ente regionale, agli EELL e alle Scuole. Da più parti provengono le esortazioni a non rinunciare alla possibilità di investimenti, ma vi è consapevolezza del rischio di dispersione dei fondi e delle opportunità.
Se pensiamo che per la Sardegna sono/saranno messi a disposizione i fondi Agenda Sud, Piano PR FSE 21-27, PNRR le opportunità sono notevoli , ma la sovrapposizione dei bandi su obiettivi simili, la necessità di tenerli distinti o di gestirli in maniera integrata comporta difficoltà che possono tradursi nella mancanza di progettazione e di spesa, già emersa, da parte della Regione, dei Comuni e delle Scuole.
La maggiore criticità è legata al fatto che siano solo degli interventi che non modificano il modello scolastico e sociale, interventi “compensativi” rispetto alle necessità dell’inclusione sociale e della ripresa economica. Per questo, considerato anche che i fondi PNRR sono un debito, si dovrebbe mirare a investimenti permanenti e strutturali. Gli economisti Boeri e Perotti, in “PNRR. La grande abbuffata, Feltrinelli, 2023”, osservano che si sarebbe dovuto prevedere una pianificazione che prioritariamente mettesse al centro il contrasto del declino demografico, l’integrazione degli stranieri, la lotta all’emarginazione sociale e che si dovrebbe mirare a inserire all’interno delle scuole in modo stabile spazi di socializzazione, tempo pieno, infrastrutture di supporto.
Dall’esperienza precedente e in corso può emergere invece che i bandi rivolti alle scuole propongono interventi su sintomi, a effetto palliativo.
Prevedono docenti aggiuntivi o compiti aggiuntivi per i docenti, acquisto di strumentazioni digitali, senza modificare realmente le dotazioni finanziarie, gli organici del personale, il numero degli alunni per classe, il tempo scuola.
Si interviene in ritardo a giochi fatti, non solo ad anno inoltrato, ma anche con interventi sulle competenze e sul sistema scolastico professionalizzante . Questi interventi possono incidere limitatamente su situazioni di partenza su effetti ormai consolidati che si manifestano negli alunni con mancanza di adesione, di motivazione, di interesse. Bisogna intervenire sui bisogni educativi fondamentali nella scuola di base. I problemi della professionalizzazione devono essere affrontati dopo che sia stato assicurato il possesso degli strumenti culturali, delle competenze chiave.
Le scuole hanno bisogno di poter fare previsione dei fondi per il Programma annuale, ma con possibilità di sviluppo pluriennale. Per questo occorre stabilità e certezza di continuità. I fondi devono essere nella dotazione del Fondo di istituto, per poter fare un quadro complessivo di quanto sarà reso disponibile, senza dover inseguire i bandi.
Numerose sono poi le criticità relative alla gestione a livello centrale, nazionale e regionale; cosa che era già evidente ed emersa nel monitoraggio dei progetti PON e Tutti a Iscol@.
La frammentazione degli organismi che intervengono comporta una dilatazione dei tempi di passaggio dalle unità nazionali a quelle regionali relativa alla decretazione, alla redazione delle linee operative, agli avvisi e ai bandi, con la conseguente riduzione di tempi di realizzazione. E’ quanto denuncia, per esempio, in questi giorni la rivista Tuttoscuola:
“Le scuole hanno l’acqua alla gola: l’Unità di missione per il PNRR ha impiegato 217 giorni per emanare istruzioni operative relative all’assegnazione di 750 milioni di euro per il potenziamento delle competenze STEM e multilinguistiche, mentre alle scuole sono stati concessi solo 30 giorni per progettare dettagliatamente le azioni: una sproporzione tra tempi e carichi di lavoro difficilmente digeribile e che preoccupa riguardo all’efficacia del processo di impiego di risorse che sono irripetibili e prevalentemente a debito. Tuttoscuola news, 20 novembre 2023
Nei prossimi 19 giorni lavorativi (l’Unità di missione per il PNRR se ne è presi 217 per emanare le istruzioni operative del al DM 65.) viene richiesto di progettare dettagliatamente il da farsi, dall’idea progettuale alle modalità di azione. In questo arco di tempo, le scuole devono definire l’analisi dei fabbisogni formativi, le azioni di formazione e orientamento, l’eventuale collaborazione in rete con altre scuole, costituire i gruppi di lavoro interni e individuare i partner di progetto definendone gli accordi. Entro il 15 dicembre 2023 va tutto caricato sulla piattaforma Futura”.Tuttoscuola 20 novembre
Certamente sono fondi che rispondono ai forti vincoli europei di progettazione (contenuti e interventi; tempi e procedure di attuazione), ma questo si traduce in una rigidità di programmi e di procedure che, da una parte limitano la possibilità di Scuole e Comuni di scegliere che cosa realmente fare e su quali dotazioni investire favorendo a volte scelte superflue e sprechi: per esempio avviene nel caso della ristrutturazioni di edifici scolastici per far affluire i fondi o degli acquisiti di dotazioni digitali cui le scuole sono vincolate a destinare una buona parte dei fondi assegnati.
Da un’altra parte le procedure sono così impegnative da richiedere un impegno di lavoro che non sarà svolto agevolmente nelle scuole e nei territori per effetto del dimensionamento. Si possono immaginare le difficoltà dovute a servizi amministrativi che gestiscono pluralità di progetti, con la prospettiva di un dirigente unico per venti scuole: quali possibilità di governance con l’ente locale e i servizi territoriali, quale progettazione attenta ai bisogni dei territori?

Una programmazione per un piano di sviluppo della scuola e della regione
   In breve si può dire che questi finanziamenti costituiscano dei flussi a carattere torrentizio che rischiano di disperdersi in mille rivoli di acquisti e contratti per personale aggiuntivo. E che forse l’opportunità non riguarderà l’efficacia dell’azione scolastica.
Che cosa si deve auspicare? Occorre continuità, messa a regime: un’azione complessa di coordinamento e di programmazione dei diversi finanziamenti che può dipendere solo da decisioni politiche lungimiranti.
Nei vari provvedimenti regionali d’intervento per il diritto allo studio si legge che sono emanati “nelle more dell’approvazione di una legge regionale sull’istruzione”. Altre regioni se ne sono dotate da tempo prevedendo interventi per servizi educativi, istruzione, orientamento, formazione professionale formazione permanente, diritto allo studio universitario. In Sardegna manca ancora.
La L.R. 31/84, all’art.14 prevede un piano pluriennale per il diritto allo studio, approvato dal Consiglio regionale su proposta dalla Giunta, in coerenza con le previsioni del piano regionale di sviluppo, nel quadro delle risorse che il bilancio pluriennale rappresenta.
Attualmente il piano per il diritto allo studio dovrebbe prevedere una scuola inserita in un contesto di sviluppo economico e riduzione delle differenze sociali. Un piano che consideri la scuola in relazione agli interventi sullo spopolamento, sui collegamenti interni sui servizi, e definisca il tempo, le infrastrutture, le istituzioni, le opzioni dell’offerta sulla base di criteri e parametri realmente concordati in un’analisi attenta con le regioni e con gli enti del territorio.
Se potessimo richiamare l’art. 13 dello Statuto e l’art 119 della Costituzione potremmo fare affidamento non solo su Agenda del Sud e risorse del PNRR, ma sulla solidarietà interregionale, su un fondo perequativo speciale “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”
Ma il Senato è occupato ad approvare la proposta Calderoli sull’autonomia differenziata, mentre il dibattito pubblico si polarizza su altri temi e divergenze.
Adesso, in Sardegna, si presenta ai cittadini la possibilità di fare scelte esercitando il diritto di voto. Abbiamo bisogno di farle con responsabilità, con una profonda consapevolezza dei problemi sociali e della china verso cui ci avviamo.
Una responsabilità che vada ben oltre la rassicurazione che ci propone, a grandi caratteri dal 10 ottobre sul sito della regione, l’assessore all’istruzione: “l’assessore Biancareddu incontra ministro Valditara che verrà in Sardegna a novembre per illustrare l’agenda sud dedicata alle scuole e l’edilizia scolastica. “Grandi piani di rilancio della scuola sarda”.

Endnotes:
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Elezioni in Sardegna, il campo largo e i duellanti. Una storiellina tutta sarda e non solo (di Fernando Codonesu)

by Redazione Scuola | 19/11/2023 18:19

C’era una volta un … tavolo del centrosinistra allargato, quello strano tavolo già strombazzato e propagandato da quel sodalizio forte sulla carta e decisamente instabile nei fatti. Nei primi giorni, nel periodo degli annunci ai quattro punti cardinali della politica isolana veniva descritto come “naturalmente” vincente, a causa dei riconosciuti guasti e veri e propri scempi causati dalla Giunta di centrodestra guidata da Solinas.

Il tavolo era annunciato come costituito da ben 23 sigle, o se preferite gambe, quasi un millepiedi, ma attenzione quello è un numero “primo” e come tutti i mattoncini della teoria dei numeri avrebbe dovuto mettere sull’avviso.

Sappiamo come è andata.

Subito sono state perse alcune componenti per strada, ben quattro che hanno dato origine al polo di “sinistra”.

Da 23 si è passati a 19 componenti perché si sono sfilati quei gruppi sofferenti di orticaria politica sensoriale al solo sentir parlare di una possibile guida targata M5S, subito identificata nella persona di Alessandra Todde, e fortemente voluta da larga parte del PD isolano.

Ma anche il numero 19 è un numero primo che, purtroppo, ha due numeri pari in mezzo rispetto al 23, per cui non vale la considerazione fatta nel noto romanzo di Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, sui “numeri primi gemelli”.

No, trattandosi di numeri primi “normali” possiamo parlare di differenza genetica tra i nostri eroi che ci permette di dire che c’è sempre stato un impedimento insuperabile per far funzionare quel tavolo truccato a partire dalla prima convocazione del 7 luglio.

Il 7 luglio c’era Paolo Maninchedda a presiedere quel tavolo e deve aver sentito immediatamente puzza di bruciato se in quel ruolo è stato sostituito fin dall’incontro successivo con il segretario regionale del PD, Piero Comandini.

Infatti, dopo qualche mese sotto il sole dell’estate il numero delle gambe si è ridotto a 18, un’altra qualificata associazione è andata via, un numero pari “normale” che notoriamente ha diversi divisori, tra questi il numero sei, al punto che si è scoperto che il tavolo era veramente truccato, solo un classico tavolino a tre gambe, già, proprio come quello delle sedute spiritiche.

E nel tavolino a tre gambe delle sedute spiritiche c’è sempre il mago che sposta il tavolo per poter parlare con il morto. Nel nostro caso non c’è alcuna difficoltà ad individuare il mago (i maghi) truffaldino e nemmeno il morto, purtroppo.

Il segretario regionale del PD ha coordinato il tavolo e non ha mai presentato un candidato di partito. Ci si chiede il perché e la risposta è solo una: non voleva disturbare i manovratori d’oltremare.

Oggi abbiamo tre liste frutto di tre mini schieramenti originati dallo schieramento originale del cosiddetto centrosinistra largo: un disastro!

Si voterà tra tre mesi e nello schieramento alternativo alla destra ci sono già tre candidati presidenti, Todde, Soru e X, un’incognita questa di cui non si conosce ancora il nome, ma non cambia la sostanza del discorso.

Al di là delle candidature a Presidente che sarebbe perfino troppo facile mettere in discussione, qui mi interessa solo fare qualche considerazione sul metodo usato dal cosiddetto campo largo, che tanto largo oggi non è.

Tutti sanno che il M5S regionale aveva una proposta diversa da quella imposta da Roma, con il patto Conte – Schlein di stampo neocoloniale (anche qui, si, proprio di stampo coloniale).

E’ possibile che non si capisca che si tratta di un’imposizione frutto di equilibri nazionali decisi a

Roma in spregio dell’intelligenza e delle capacità politiche dei sardi?

In questo metodo io ravviso disprezzo e supponenza che relegano al rango di volontari del sangue (leggasi portatori di voti) le numerose associazioni che hanno partecipato in questi mesi ad un tavolo “decidente” su decisioni prese altrove.

Si dirà, ma ora c’è la Todde per cui a cosa serve cercare ancora qualche altra possibilità?

Non sono d’accordo, se si vuole vincere bisogna darsi un’altra possibilità, altrimenti diventerà difficile anche semplicemente comporre le liste perché già ora si vede un fuggi fuggi generale.

Una cosa è partecipare alle elezioni con ragionevoli possibilità di successo, ancorché dovute ai demeriti di chi adesso è alla guida della Regione, altro è partecipare con una compagine perdente, senza alcuna possibilità di vittoria, peggio di un’armata Brancaleone, litigiosa e che non sa più dove andare.

E qui valgono ancora due considerazioni. La prima, chi organizza la campagna elettorale per il campo largo ora ridotto a poco più di un campetto da oratorio?

Certamente non il M5S che non ha alcuna struttura sul territorio. Ci penseranno le associazioni?

Ma anche queste hanno strumenti limitatissimi e sono privi di una specifica organizzazione.

Rimane l’unico partito ancora organizzato (si fa per dire), il PD.

Quindi lo stratega Comandini dovrà pensare alla campagna elettorale con l’obiettivo di arrivare almeno secondi, ma più che distanziati dal centrodestra.

E Soru?

Lui si candida a Presidente, non a fare il consigliere regionale per guidare a posteriori l’opposizione. Ma se penso alla sua esperienza nel parlamento europeo, dove si è qualificato come il più grande assenteista di tutti i tempi, è molto improbabile che frequenterà Via Roma arrivando secondo, avendo già assaporato a lungo Via Trento 69!

Sappiamo che se arrivasse terzo il problema non si porrebbe, ma ad oggi bisogna riconoscere che ha molte fiches da giocare!

La stessa considerazione vale per Alessandra Todde, sperando che giunga almeno a Betlemme ornata di trofei, anche se non si potrà riposare perché non ci si arriva giusto alle sei, cioè che arrivi almeno seconda nella prossima competizione elettorale. Guiderà l’opposizione per i prossimi cinque anni?

Permettetemi di dubitarne: l’esito più probabile, in quanto meno faticoso, più riposante e più remunerativo, è continuare a fare la deputata nel parlamento italiano.

E’ possibile che ai due strateghi nazionali Conte-Schlein non sia neanche passato per l’anticamera del cervello che un patto di quel tipo non doveva essere imposto alla Sardegna, proprio per le sue specificità e la specialità statutaria?

Potevano tranquillamente fare una sperimentazione di “fusione potenziale per incorporazione” in una regione a statuto ordinario, ma non qui da noi, proprio per la nostra storia e cultura politica. E ancora, per la candidatura della Todde, non sarebbe stato meglio presentarla a iniziative pubbliche sui temi rilevanti per la Sardegna come lo statuto, l’energia, le servitù militari, il governo del territorio, i trasporti e così via, almeno a partire dal 2022, cioè a partire da due anni prima della scadenza elettorale?

In tal caso la sua persona sarebbe stata naturalmente accettata come candidata frutto del lavoro del tavolo plurigamba, ma così non è stato.

E’ chiaro che in presenza di più candidati l’unico strumento democratico che permette di fare la scelta giusta sono le primarie e non gli accordi nel chiuso delle segrete stanze, siano esse romane o cagliaritane.

Non si pretende che si diventi aquile per vedere così lontano politicamente parlando, ma almeno si poteva usare un po’ di buon senso e comportarsi di conseguenza, per evitare di finire come i capponi di Renzo!

In tutto questo la destra ci gongola.

Io credo che i due duellanti debbano mettere da parte le prove muscolari e usare bene il cervello, affidandosi al buon senso e al cuore.

Questa spaccatura che regalerebbe di nuovo la Sardegna a questa destra non è tollerabile.

Per questo suggerisco che questo incontro pubblico ci sia e che si proceda almeno con un ‘ravvedimento operoso’, se i due contendenti non intendono passare come gli emulatori dei duellanti di Joseph Conrad, celebrati al cinema dal regista Ridley Scott.

Ad entrambi i duellanti chiedo di ricomporre questa frattura.

Siate generosi, intanto verso voi stessi, ma soprattutto verso il popolo sardo a cui vi richiamate e a cui vi appellerete nel corso della campagna elettorale.

Tra l’altro, Soru è un uomo d’azienda e sa bene che una sua lista non contrapposta alla Todde gli permetterebbe comunque di diventare se non l’azionista di maggioranza, almeno uno degli azionisti di riferimento della più che probabile giunta di centrosinistra.

E questo conta sicuramente.

Siccome non credo alla possibilità che “tra i due litiganti il terzo goda”, anche perché quel terzo evocato oggi su www.vitobiolchini.it non risulta che abbia l’intenzione di fare la parte del terzo candidato presidente, almeno dagli atti e dichiarazioni pubbliche note, l’unico risultato del duello continuo sarebbe un risultato elettorale da secondo e terzo posto.

Comunque si tratterebbe di un disastro e la destra continuerebbe a spadroneggiare senza pagare alcun dazio.

Ragionate allora deponendo le armi e arrivate a quello che in altri ambiti viene chiamato “ravvedimento operoso”: non ci sono tasse da pagare, solo voti e impegno politico e civile da suscitare con passione tra la popolazione sarda.

E fateci vedere e sentire anche alcuni punti del programma. Se è vero che Zygmunt Bauman ci ha insegnato che è difficile vivere nella società liquida attuale, ne dobbiamo dedurre che anche l’elettorato è molto liquido. E al riguardo, non avendo avuto sentore del programma come se questo non contasse, non posso che chiedermi dove possa andare l’elettorato di centrosinistra (quello di destra mi interessa molto meno), quando si vive nel pensiero politico aeriforme, cioè invisibile e non percepibile.

Senza una ricomposizione che ritengo ancora possibile, ci sarà una responsabilità diretta vostra della prossima sconfitta elettorale, con un altro buon cinque per cento di Non voto in più, soprattutto tra gli elettori del centrosinistra largo, perché non se ne può più di questo spettacolino squalificante che ci potevamo e dovevamo evitare.

In tal caso, questa destra non farà alcuna fatica a vincere, senza dover scomodare qualche candidatura di livello più alto dell’attuale, ma vincerà a mani basse anche con questo impresentabile e pessimo Solinas.

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Israele e Palestina, quale libertà di stampa? (di Roberto Mirasola)

by Redazione Scuola | 13/11/2023 15:51

Il ritorno violentissimo della guerra nel piccolo lembo di terra che gli arabi chiamano Palestina — e i sionisti chiamano Israele — ha di nuovo messo a dura prova le nostre coscienze.

Cerco di scegliere adeguatamente le parole che possano esprimere correttamente il mio pensiero: non voglio scrivere a caso, voglio essere preciso. Perché sionismo e non ebraismo? Per il semplice motivo che il sionismo contraddice il pensiero ebraico, che non prevede la necessità di avere una sua terra con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Per chi volesse, poi, approfondire il tema, si consiglia la lettura di “Strade che divergono — Ebraicità e critica del sionismo” di Judith Butler. Ora, questa considerazione, opinabile se volete, ma supportata da lunghi studi, non si può più fare perché è uso comune parlare di Israele come di Stato Ebraico.

Ho scritto che la guerra ha messo a dura prova le nostre coscienze, e non ho parlato di orrore di fronte alle immagini ricorrenti che ci giungono, e a scanso di equivoci ci metto pure la strage iniziale causata da Hamas. L’orrore in quanto tale non prende in considerazione la nazionalità ma le atrocità perpetrate alle persone, chiunque siano le vittime.

Perché dunque coscienze e non orrore? Non sono certo indifferente alla violenza, come potrei esserlo, ma di quest’argomento si è parlato in maniera esaustiva, del secondo no.

Coscienza nell’accezione di comprendere e valutare i fatti. E allora quanti effettivamente stanno valutando i fatti? Pochi, molto pochi. Chi avrebbe titolo a farlo? Io penso tutti ma, a maggior ragione, la stampa, non fosse per altro per il ruolo informativo che dovrebbe svolgere.

La stampa italiana ha, ad esempio, da tempo preso le difese e le ragioni di Israele; abbiamo, colpevolmente, dimenticato la conoscenza che ci apparteneva, diplomaticamente e politicamente. Abbiamo cancellato Pertini, Craxi e persino Andreotti, che comprendevano la causa palestinese. Avete dei dubbi al riguardo? Fatevi una ricerca su YouTube e troverete il riscontro di quanto dico. Si potrebbe obiettare che oggi c’è Hamas, un’organizzazione terroristica. E perché, negli anni Ottanta l’OLP non utilizzava la lotta terroristica? L’abbiamo forse dimenticato? O se vogliamo andare ancora più a ritroso, alzi la mano chi conosce l’operato dell’Haganah? Per i più distratti, mi permetto di ricordarlo io. Si trattava di un’organizzazione paramilitare terroristica ebraica attiva durante il mandato inglese in Palestina.

Come vedete, l’azione terroristica non è nuova in quelle terre. È giustificabile? No. I problemi si risolvono sempre a livello politico, ma ci deve essere una volontà tra le parti. Ecco, ora la politica tace e la guerra prolifera. La responsabilità è anche del blocco Anglosassone (USA e Inghilterra) e dell’UE. Mi chiedo come si possa giustificare il diritto di Israele a difendersi seguendo il criterio della proporzionalità. Mi dite, in questo massacro, dove sta la proporzionalità? Semplicemente non esiste. Solo Guterres denuncia, e non è un caso che è tacciato di antisemitismo con apparizione all’ONU delle delegazioni Israeliane con tanto di stella di David al petto, di hitleriana memoria. Un’infamia alle vittime dell’olocausto, perché la Shoà è una responsabilità tutta europea, estranea al mondo arabo.

Ecco, il punto chi scrive e parla fuori dal coro è tacciato di antisemitismo. È capitato anche a me, reo di aver invitato nella sala consiliare del comune di Cagliari il Prof. Ilan Pappè. La verità è che chi si esprime fuori dal coro rischia. “Addirittura!”, mi direte. E allora cosa ne pensate di questa storia? Un giornalista che scrive delle sue opinioni personali senza coinvolgere nessuna testata giornalistica, visto che uno può scrivere sui social, ebbene, questo giornalista viene sospeso dal suo giornale, su segnalazione della classe di funzionari al servizio dell’attuale Governo, perché il suo pensiero non è in linea. Ma non è in linea con chi? Con gli israeliani e gli americani. Lascio a voi le considerazioni. Io, da parte mia, ribadisco la mia solidarietà al giornalista che lotta anche per me, visto che la libertà di stampa è prevista dalla nostra Costituzione.

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Contro il fanatismo (di Roberto Paracchini)

by Redazione Scuola | 11/11/2023 16:04

Contro il fanatismo

C’era una volta un bambino che amava molto osservare le persone. E poi c’era un gelato, che a quel bambino piaceva molto. E c’era anche una promessa: “Se fai il buono ti compriamo il gelato”. E c’era pure un locale, un Caffè, dove quel bambino veniva portato dai genitori che “dovevano discutere con i loro amici”, come gli raccontavano. E a quel bambino non piaceva molto starsene lì con tutti quei grandi sette giorni su sette. “Allora dovevo pur fare qualcosa di me stesso, per non urlare o dar fuori di matto”. Sì, certo c’era la promessa del gelato, ma non bastava. “Così me ne stavo lì seduto, come un piccolo detective, a osservare il via vai del locale – gente che entrava, gente che usciva… e come uno Sherlock Holmes, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe, rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza o sui rapporti tra quelle due donne e quell’uomo seduti al tavolino d’angolo…”.

Passano gli anni. Forse 50 o 60. E quel bambino, nato a Gerusalemme nel 1939, si chiama oggi Amos Oz: a 15 anni decise di cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”, poi entrò nel kibbutz Hulda dove scelse di andare in rotta coi genitori, fortemente di destra, e dove visse per i successivi 30 anni. Quel bambino, poi ragazzo, poi giovane adulto, con gli anni divenne l’Amos Oz scrittore che in molti conoscono e amano anche per la capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi facendoceli intimamente vivere: uno degli autori più importanti della letteratura contemporanea, morto nel 2018.

Passati tutti quegli anni e arrivati ai primi del XXI secolo, Oz confessò in alcune conferenze tenute a Tubinga (recentemente ripubblicate in Italia da Feltrinelli col titolo Contro il fanatismo) che continuava a comportarsi “così” come allora: “Quando mi capitano i cosiddetti ‘tempi morti’, in aeroporto o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista, o in coda da qualche parte… Ancora fantastico. E credetemi, è un passatempo utile, non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero tante cose, in ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un Caffè… Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda”.

Ed è proprio su questa importante constatazione, su “come ci si appartiene a vicenda”, che Oz costruisce la sua visione della letteratura, certamente, ma anche il suo modo di vivere la vita e, si potrebbe dire, il suo insegnamento. “Ogni mattina – racconta nel libro citato – faccio una piccola passeggiata nel deserto, prendo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a domandarmi: ‘Come mi sentierei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?’ – questo è ciò che devi fare se vuoi scrivere anche il più semplice dei dialoghi: devi spartire non soltanto la tua fedeltà, ma persino i tuoi sentimenti tra diversi personaggi”. E non solo, “parafrasando D. H. Lawrence (…) per scrivere un romanzo bisogna essere capaci di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni, con lo stesso grado di convinzione, veemenza ed empatia”.

Considerazioni, queste ultime, che gli attori teatrali ben conoscono, ma che in Amos Oz diventano non solo il propulsore della sua grande letteratura, ma anche il terreno per entrare nel dramma e nella tragedia dei luoghi in cui è vissuto. “Allora, forse – afferma – sono equipaggiato un po’ meglio degli altri per capire, con il mio punto di vista ebraico-israeliano, come ci si sente a essere un palestinese sradicato, come ci si sente ad essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale. E come ci si sente a essere coloni israeliani in Cisgiordania? Sì, talvolta mi infilo nei panni di quella gente oltranzista, o quanto meno ci provo”.

Nel 1967, Oz assieme a pochissime altre persone, “molto prima che fosse fondato il movimento Pace Adesso, qualche settimana dopo la spettacolare vittoria militare d’Israele nella guerra dei Sei Giorni, iniziò “a propugnare una soluzione binazionale, una Palestina accanto a Israele, cosa che in quei giorni di euforia nazionale in Israele veniva guardata non solo come un tradimento, ma anche come una manifestazione di totale idiozia”. Invece, per l’autore de “Lo stesso mare” e di tanti altri favolosi romanzi, “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io”.

“In altre parole – spiega Oz – agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici”. E così, “traditore lo sei comunque. Qualunque cosa tu faccia, tradisci o la tua arte o il tuo senso di dovere civile”. Ma per Oz la soluzione esiste ed è il compromesso. Per molti il compromesso “puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Per lo scrittore il fanatismo “dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo… No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors’anche dentro di noi”. Poi Oz fa una serie di esempi tra cui quello, portato al paradosso, di certi pacifisti: “Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi”. Sia chiaro, spiega, “non voglio certo intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli”. E nemica inflessibile del compromesso.

Nei romanzi di Oz nessuno è un’isola, chiuso e impermiabile al mondo, ma tutti sono una penisola, legati alla terra del proprio modo di essere e all’oceano, gli spazi del cambiamento. “Se nei miei romanzi c’è messaggio metapolitico, è sempre, in un modo o nell’altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere tra vita e morte, fra l’imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa”, che tutto sommerge, si potrebbe aggiungere, come un macigno di “rettitudine inflessibile”. E non è certo un caso, sottolinea lo scrittore, che i fanatici non abbiamo senso dell’umorismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo”. Questo anche perché “l’umorismo implica la capacità di ridere di sé stessi”. Umorismo come antidoto al fanatismo e al fondamentalismo, che nasce anche da una profonda conoscenza dell’ebraismo (tra le altre cose Oz ha insegnato letteratura ebraica nell’università Ben Gurion, nel Negev). “Nella vita quotidiana degli anni quaranta – ricorda – ognuno pensava di appartenere a Gerusalemme nel vero senso del termine, mentre gli altri erano considerati alla stregua di una presenza ammissibile, di sfondo”. E le “tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo. O ancora un senso di relatività. La convinzione insomma che ognuno ha la sua storia, ma non ce n’è una più valida o avvincente dell’altra”.

Pure qui ritorna lo spazio di un Caffè come luogo di dialogo e di produzione di storie, come quella che vede discutere animatamente alcune persone, tra cui se ne nota una più vecchia degli altri che se ne sta in silenzio, ma che si scopre essere Dio. L’avventore più vicino “ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: ‘Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i mussulmani? Chi possiede la vera fede?’. Allora Dio, in questa storia risponde: ‘A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa’”. Insomma, prosegue Oz, “c’è una vena di anarchia non soltanto in Israele, ma credo piuttosto nel retaggio culturale dell’ebraismo”.

Una percezione di relatività, che nasce anche dal senso dell’umorismo, è indispensabile allo scrittore per capire le ragioni degli altri. Quand’era piccolo, Oz ricorda che le prime parole in inglese da lui pronunciate “sono state British, go home!, che noi marmocchi gerosolimitani (nativi di Gerusalemme – ndr) gridavamo gettando sassi contro le pattuglie inglesi a Gerusalemme nella nostra ‘intifada’ del 1945, 1946 e 1947”. Poi la storia è diventata ancora più complessa: “Come non far maturare un senso di relatività, un senso della prospettiva e anche una triste ironia sul fatto che gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori? Con quanta facilità i ruoli si ribaltano”. E la storia si incancrenisce.

“Fra noi e i palestinesi – scrive nell’ultimo suo piccolo e illuminante saggio Resta ancora tanto da dire – c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai”. Ma “non si cura una ferita con un bastone… Non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che smetta di sanguinare”. Certo, “la sopraffazione non di rado va fermata con la forza… Ma nessuna ferita si cura con un bastone”. Da pacifista coerente, Oz spiega che “una ferita va curata” e che “prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’”. Per lo scrittore è una lingua più semplice: “Soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”.

Nella guerra arabo-israeliana del 1948, il punto – sostiene – non è di chi sia la responsabilità del conflitto. “Il punto è la tragedia. Che siano da accusare le dirigenze arabe, o i sionisti, o entrambi, resta il fatto che nel 1948 centinaia di migliaia di palestinesi persero le loro case. So bene che nello stesso anno, durante la stessa guerra, quasi un milione di ebrei orientali dei paesi arabi persero anche loro le case e molti di loro vennero cacciati via e arrivarono in Israele”. E prima e in parte assieme a loro, molti ebrei abbracciarono l’idea sionista ma con un ventaglio vastissimo di posizioni e interpretazioni, tanto da far dire ad Oz, seppure “cum grano salis, (…) che Israele non è un paese e nemmeno una nazione. È una feroce, schiamazzante collezione di argomentazioni, un perpetuo seminario di strada”.

“Ma allora che cos’è il sionismo? – si domanda retoricamente lo scrittore in Resta ancora tanto da dire, consapevole che è questa la domanda che molti gli pongono – Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove”. Come dire che il sionismo nasce tra gli ebrei perseguitati da secoli, poi sterminati dal nazismo e infine rifiutati da tutti gli altri paesi, come gli stessi genitori di Oz.

In questo contesto il conflitto Israelo-palestinese era e resta una tragedia. Dopo la guerra del 1948 “un buon numero” di ebrei orientali, “finì in quelle stesse case che erano appartenute agli arabi palestinesi”. In pratica, “dopo tre quattro, cinque anni trascorsi nei campi di transito, gli ebrei sopravvissuti che venivano dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Egitto, Siria e Yemen ebbero finalmente una casa e un lavoro, mentre i profughi palestinesi no. La questione rimane aperta, e con dolore”.

Ed è per questo che questa lunga storia non ha “buoni da una parte e cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto”. C’è invece, “una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro”. Un diritto e l’altro, entrambi calpestati, infatti “una delle cose che rendono il conflitto israeliano-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. E qui Oz on ha dubbi. “L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”.

La storia poi diventa particolarmente crudele, racconta Oz, perché queste due vittime di uno stesso oppressore non solidarizzano tra loro, ma si odiano. Da un lato “l’ebreo, in particolare l’ebreo israeliano, è dipinto come un’estensione dell’Europa: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore”. E non come “un gruppo sparuto di sopravvissuti e profughi mezzo isterici, braccati da terribili incubi, traumatizzati non solo dall’Europa, ma anche dal modo in cui siamo stati trattati nei paesi arabi e islamici”. Dall’altro lato, “parimenti noi, ebrei israeliani, non consideriamo gli arabi, nello specifico i palestinesi, per quello che sono, e cioè vittime di secoli di oppressione, sfruttamento, colonialismo e umiliazione. E invece li vediamo come dei cosacchi da pogrom, dei nazisti con i baffi, abbronzati e con indosso la kefijah”.

A fronte di tutto questo “vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito”. Da un lato il movimento nazionale palestinese, per molti anni, “ha mancato di riconoscere l’autenticità del legame ebraico con la terra di Israele. Perché non ha voluto riconoscere che il moderno Israele non è affatto un prodotto dell’impresa coloniale”. Dall’altro, parimenti “aggiungo subito che sono altrettanto critico verso le generazioni di sionisti israeliani che hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, un popolo vero con veri, legittimi diritti. Così, entrambe le leadership, tanto passate quanto presenti, sono colpevoli di non aver compreso la tragedia, o se non altro di non averla spiegata ai propri popoli”.

Che fare, infine? Oz chiude Contro il fanatismo con una esortazione quanto mai attuale: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.

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Disagio giovanile, povertà educativa e criminalità: la risposta è il decreto Caivano? (di Rita Sanna)

by Redazione Scuola | 22/10/2023 17:41

Intervento di Rita Sanna al seminario del 16 ottobre 2023

Qualcuno ha definito Meloni, Valditara e Piantedosi come una bomba a grappolo di cultura reazionaria.

È proprio così e le loro vittime, permettetemi di usare un termine legato alla guerra che è molto doloroso in questo momento, sono i giovani e i ragazzi.

I tragici fatti di Caivano e Palermo hanno prodotto alcuni blitz nelle periferie urbane, la visita in grande spolvero al Parco Verde e un decreto legge.

È evidente la pura occasionalità propagandistica del gesto. Trattare come un’emergenza situazioni che fanno parte invece del vissuto quotidiano di tanti cittadini, purtroppo di tante ragazze e ragazzi che abitano le nostre disastrate periferie, è offensivo, è un’assoluta mancanza di rispetto oltre che la dimostrazione dell’ignoranza, nel senso di non conoscenza, dei territori che ci si trova a governare.

Gli insegnanti sanno bene che non è la repressione ciò che occorre, ma la prevenzione.

Vorrei fare riferimento ad alcuni aspetti che sono stati analizzati stasera sia all’interno del decreto legge sia negli interventi dei relatori.

Cito quelli che, da donna di scuola, mi stanno più a cuore e che non riguardano solo la scuola, che spesso viene vista come un universo concentrazionario, dove ciascuno ha il suo ruolo e il suo posto dove stare e troppo spesso la bellezza, la creatività, l’entusiasmo, l’attenzione al nuovo dei nostri studenti e studentesse non trovano spazio.

Un universo organizzato con regole rigide mentre avremmo bisogno di orari flessibili, di personale in più, insegnanti ma non solo, di figure di riferimento – non parlo certo degli “orientatori” – in grado di costruire con noi proposte per affrontare, insieme, i problemi che ogni giorno affrontiamo.

Cosa ci serve per contrastare realmente la dispersione scolastica? Indubbiamente più scuola, ne ha parlato la segretaria della FLC CGIL Francesca D’Agostino nel suo intervento, ma non solo.

Sappiamo che quando si chiude una scuola in un quartiere di periferia o in un centro storico degradato o in un piccolo centro, a quel punto si rende visibile nella sostanza l’azione dello stato.

Nel decreto si propongono finanziamenti a termine, che non affrontano i problemi dal punto di vista strutturale, ma allo stesso tempo il Ministero dell’Istruzione e del Merito riduce il numero delle istituzioni scolastiche.

Penso alla situazione della Sardegna: si lasciano intere comunità senza le scuole ma anche senza medici, senza servizi sanitari, senza l’ufficio postale, senza una farmacia. E poi si piange sullo spopolamento.

Trovo inaccettabile l’equiparazione tra adulti e minorenni non solo dal punto di vista giuridico ma nella sostanza dei fatti. E mi chiedo che senso abbia, come la si voglia affrontare concretamente.

Non mi piacciono i modelli o le soluzioni che ci vengono proposti, così non come non mi piacciono il linguaggio e le parole che vengono usate per definirli

Non mi piace la parola elusione, invece che dispersione e abbandono, che non dà conto della gravità del problema.

Non mi piace la parola Daspo, che rimanda a provvedimenti che sono partiti dall’ambiente della violenza della tifoseria calcistica.

Non mi piace la metafora del lupo, che colpevolizza le vittime.

Non mi piace la didattica orientativa che vuole orientare al lavoro sin dalle elementari.

Soprattutto non mi piace non mi piace la parola filiera, figlia di un’idea di scuola che si è esplicitata e concretizzata con la ministra Moratti e ha inquinato, un po’ sottotraccia inizialmente ( la scuola azienda, vi ricordate? ) , producendo non più scuola ma modifiche di programmi e curriculum, tagli alle ore di discipline come la storia, la geografia o il diritto che servono a capire il mondo.

Aggiungo in conclusione che sono importanti non solo le scuole ma gli archivi e le biblioteche, le ludoteche, che fanno cultura anche nei piccoli centri e nei quartieri, che avvicinano i ragazzi attraverso i loro interessi più immediati, che vanno valorizzati e accolti, per favorire la “formazione dell’uomo e del cittadino” ( cit. Nuovi programmi della Scuola Media, 1979)

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Sardegna, per un nuovo Statuto speciale Idee, progetti e possibili processi di autogoverno (di Fernando Codonesu)

by Redazione Scuola | 17/10/2023 10:50

Ragionare su un nuovo statuto speciale della Sardegna con un preciso orientamento verso l’autogoverno può sembrare oggi un passo temerario, al limite del velleitarismo insensato per alcuni, tanto più se si considera la profonda crisi economico sociale che vive la Sardegna da almeno tre decenni.

Abbiamo qualche numero tragicamente importante come il record nazionale (forse europeo) della più bassa natalità e una diminuzione netta di circa 100.000 residenti negli ultimi 20 anni, nonostante gli apporti netti in termini di immigrati residenti.

E va considerato che i nostri emigrati sono quasi sempre giovani altamente formati, laureati o diplomati, e quelli che non lo sono appartengono comunque a quella fascia di età costituita da lavoratori intraprendenti, costretti a trovare altrove il luogo in cui lavorare e poter vivere serenamente.

Un’isola, dunque, per certi versi sempre più vecchia, demoralizzata e rassegnata, governata malissimo specie in quest’ultima tornata del centrodestra che pare non finisca mai, soprattutto alla luce del malfermo tavolo del centrosinistra attivo dal sette luglio dell’anno corrente.

Eppure, nonostante questa situazione tutt’altro che favorevole, ragionare sull’autogoverno si deve e si può, innanzitutto ripensando e riscrivendo il nostro statuto di autonomia speciale.

Sono convinto della necessità improcrastinabile di affrontare da cinque punti di vista quella che continua ad essere nota come la “questione sarda” all’interno del rapporto centro-periferia (che riguarda ampie parti della stessa Europa), analizzato ampiamente da diverse angolazioni a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso.

Le contraddizioni insite nel rapporto centro-periferia, in Sardegna ha portato alla creazione di nuovi movimenti politici a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, caratterizzati da obiettivi e parole d’ordine espressione di prospettive autonomiste, sovraniste e indipendentiste. Negli anni vi è stato il rafforzamento di partiti espressione del sardismo e della cultura del popolo sardo (ora decisamente declinanti), così come un rinnovato interesse per le tematiche legate alla sardità anche all’interno dei partiti politici nazionali presenti in Sardegna.

Quando si parla del rapporto centro – periferia si assume come metodo di analisi l’insieme simultaneo delle discriminanti parametriche conosciute come le tre “d”, distanza dal centro, ovvero dai luoghi decisionali del potere, in primis, per quanto ci riguarda, da Roma e da Bruxelles; differenza per cui è opportuno chiedersi se ci sono caratteristiche specifiche di questo popolo periferico, come quelle di tipo etnico-culturale, storiche, linguistiche, antropologiche, identitarie, di popolo come nazione ancorché senza Stato, ecc.; dipendenza, ovvero quanto si dipende oggi dal centro oppure se c’è un’interconnessione economica e sociale oramai così stretta tra la Sardegna-periferia e il centro, ragione per cui sarebbe antistorico porre questo problema.

In effetti a me pare che nel rapporto Sardegna/Italia continuino a perdurare tutti gli elementi di reale distanza, differenza e dipendenza tra centro e periferia che nel 1948 portarono all’approvazione dello statuto di autonomia speciale e che, per certi versi, tali parametri si siano aggravati negli ultimi decenni.

Da qui nasce l’esigenza di riscrivere il nostro statuto speciale in modo che vi siano contenuti gli insegnamenti ideali e le relative prospettive programmatiche che vengono da protagonisti della nostra storia politica e culturale come Angioy, Tuveri, Asproni, Gramsci, Bellieni, Lussu, Simon Mossa, Melis, nonché dai movimenti politici popolari, identitari, etno-culturali, sovranisti e indipendentisti attivi in Sardegna dagli anni ’70 del secolo scorso ai giorni nostri.

Il tema fondamentale della riscrittura dello Statuto e le sei materie su indicate a mio avviso dovrebbero essere affrontate dai seguenti cinque punti di vista: politico, tecnico-scientifico, economico-occupazionale e finanziario, fiscale e tributario, giuridico-costituzionale.

Fermo restando che la scrittura dello Statuto può essere fatta nella cornice dei vincoli derivanti dalla Costituzione e dallo Statuto vigenti e che tale compito istituzionale spetta al Consiglio Regionale nelle forme politiche e organizzative che riterrà opportune, il quinto punto di vista dovrebbe entrare nel merito di quale statuto, con quali modalità operative e quali tempistiche in base alla Costituzione e allo Statuto vigenti, ivi comprese le norme attuative, delineandone possibili soluzioni percorribili.

Per questa necessità di un approccio multilaterale a temi così rilevanti c’è bisogno di più voci e per questo, come Scuola di cultura politica Francesco Cocco, stiamo lavorando ad un convegno su questi temi che riunisca protagonisti provenienti da mondi diversi della politica, dell’economia, della ricerca e delle professioni e della società civile impegnata sui temi della cittadinanza.

Che le sei materie Energia, Governo del territorio, Urbanistica, Ambiente, Paesaggio e Trasporti siano totalmente interdipendenti tra loro è un fatto e non un’opinione.

Per quanto mi riguarda, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e dei singoli individui, riconosciuto dagli organismi internazionali, è il faro che deve guidare l’azione politica di tutti, a qualunque latitudine. Da qui partono alcune delle riflessioni che intendo sviluppare, ancorché sinteticamente, in questo intervento.

Il diritto all’autodeterminazione delle autonomie locali si realizza nel rispetto della Costituzione e all’interno della repubblica una e indivisibile con l’autogoverno.

L’autogoverno si differenzia dall’autonomia perché oltre alla sfera dell’amministrazione e della gestione ha competenza primaria, possibilmente esclusiva, sul processo legislativo e impositivo. E’ con la possibilità concreta di questi ultimi due elementi che permettono di avere le “risorse” economico-finanziarie che si sostanzia l’autogoverno, altrimenti si torna all’ambito più limitato dell’autonomia e del decentramento amministrativo.

Autonomia e decentramento amministrativo che, nella migliore delle ipotesi, hanno caratterizzato questi 75 anni di autonomia speciale della Sardegna con i risultati che conosciamo.

Periferie urbane, periferie territoriali

Il grande architetto Renzo Piano continua a portare avanti l’esigenza di “ricucire” le periferie.
Se ricucire è necessario, sicuramente non può essere ritenuto sufficiente.

Le periferie vanno riportate al centro dell’attività politica, economica e sociale.

Le periferie, sia quelle urbane che quelle territoriali che caratterizzano le nostre società, non dovrebbero proprio esserci se vogliamo tendere a realizzare quel principio di uguaglianza tra gli uomini e tra tutti i luoghi del vivere dove poter godere dei diritti di cittadinanza.

Le periferie assomigliano sempre di più a luoghi di esclusione e di confinamento sociale. Sono fonte di differenze e discriminazioni così forti e sentite che, nei contesti fortemente urbanizzati, sfociano sempre e comunque nella rabbia e nel conflitto sociale.

La stessa considerazione vale per le periferie territoriali che, per quanto riguarda la nostra isola, abbondano e possono ricomprendere quelle decine e decine di piccoli comuni ad oggi privi di qualunque tipo di servizi come scuole, medico di base, trasporti adeguati, luoghi di incontro sociale e servizi vari che possano permettere alla cittadinanza di continuare ad abitare e vivere i luoghi.

E per quanto riguarda le periferie territoriali, nessun territorio della nostra repubblica è periferia quanto la Sardegna, sempre più isola delle disuguaglianze, con decine di paesi senza servizi sanitari di base e senza scuole degne di questo nome, con trasporti interni inesistenti, sfruttata come una colonia italiana delle servitù militari e della produzione e sperimentazioni di bombe e armamenti per conto dell’intera NATO, con un popolo Sardo a cui è stata compressa e negata l’identità con l’obiettivo politico di impedirne la consapevolezza di essere Nazione.

Su questo punto intendo tornare in seguito, dopo aver tratteggiato alcune aspetti di base sui contenuti di interesse da approfondire collettivamente in sede di dibattito pubblico.

Le sei materie di interesse sono individuate nell’art 117 della Costituzione tra quelle di competenza regionale (urbanistica), statale (ambiente) e concorrente (le altre).

A mio avviso ci sono le condizioni per una riscrittura dello Statuto speciale che, tra gli altri punti fondamentali da rivedere per ridefinirne l’impianto, almeno sulle materie elencate consenta di individuare reali percorsi di autogoverno o, per alcuni studiosi e protagonisti della storia politica culturale della Sardegna, percorsi di “autonomia integrale” del popolo sardo.

Su tale questione assume particolare rilevanza il punto di vista dei costituzionalisti e giuristi che affronteranno il tema.

Ogni processo di cambiamento ha bisogno di concretezza e per questo riteniamo che un approccio integrato alle sei materie dai cinque punti di vista indicati permetterà di individuare proposte realistiche, indicando anche le risorse economiche e finanziari per la loro realizzazione, immediatamente percorribili dalle istituzioni elettive e da tutti i luoghi decisionali preposti alla guida della Sardegna.

Le sei materie tra regionalismo e ricentralizzazione

Per l’energia auspichiamo una Sardegna totalmente rinnovabile con un sistema energetico largamente distribuito costituito da una numerosità di impianti tale da soddisfare ogni bisogno energetico della regione.

Ci sono tutte le condizioni perché in Sardegna si intraprenda tale strada: con l’autogoverno si può evitare l’assalto al sole e al vento della nostra terra da parte delle multinazionali e delle imprese nazionali che non lasciano alcuna forma di ricchezza sui nostri territori.

Lo Statuto ci riserva sulla produzione e distribuzione dell’energia delle competenze private che vanno esercitate: si può e si deve farlo.

Tali competenze vanno utilizzate per sottrarre ad Enel, oggi società privata quotata in borsa con lo Stato azionista con poco più del 23%, la gestione di tutte le centrali idroelettriche che producono energia con l’acqua appartenente al demanio regionale.

Quindi non solo energia dal sole e dal vento, ma anche dall’acqua e perché no, anche dalla geotermia ancorché a bassa temperatura, così come dal moto ondoso.

Sull’energia come sulle altre materie chiediamoci quale Quale evoluzione ha avuto il diritto regionale?

Si può rispondere che negli ultimi tre decenni del secolo scorso il diritto regionale ha avuto un notevole sviluppo.

Si è fatto un significativo passo avanti con l’art. 114 e con la giurisdizione sul regionalismo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma se si guarda al contenzioso tra Regioni/Stato sulle tante materie di intervento governativo in questi decenni a partire dall’energia (concorrente) e finire con l’urbanistica (solo regionale), l’intervento del legislatore statale, poi prontamente ratificato dalla Corte (le eccezioni non fanno la regola) è sempre stato quello di un ridimensionamento del diritto regionale. Questo ha comportato il venir meno dell’ispirazione di fondo della Carta basata sulle autonomie locali e specificatamente sulle regioni, in analogia con la costituzione spagnola, unico altro modello simile in Europa.

Per esempio il diritto regionale sull’urbanistica, che è materia esclusivamente regionale, è comunque compresso e limitato anche con maglie estremamente strette perché tocca aspetti del Governo del territorio (concorrente), dell’Ambiente (Stato), del Paesaggio (la tutela è dello Stato, la fruizione e gestione pur regionali sono concorrenti di fatto), i Trasporti (concorrente), ecc.

E quando si parla di urbanistica dobbiamo ripensarla totalmente mettendo al centro “le periferie” che devono avere la stessa cura e attenzione di ogni parte della/e città.

La stessa “cura e attenzione” che ci devono permettere, per estensione, di avere una programmazione qualitativamente uniforme di servizi e opportunità in ogni parte e luogo della Sardegna, intesa come insieme di luoghi urbanizzati e campagne.

Riparlare di servitù militari in una prospettiva di autogoverno prevedendone una progressiva dismissione vuol dire mettere mano alla vasta tematica del Governo del territorio che a sua volta incide e si interseca con l’Urbanistica.

E il Governo del Territorio non può essere scisso dai Trasporti, verso l’esterno dell’isola e verso le aree interne, che non devono essere concepiti solo in termini di profitto, ma di equilibrio economico e sociale. E quando si parla di Trasporti caratterizzati da un equilibrio di tipo sociale bisogna comprendere e accettare che lo si garantisce anche con alcune “linee” in perdita.

In quanto guidati dalle tre “d” e con l’aspirazione a rovesciare il paradigma centro-periferia, i territori e i vari luoghi in cui si estrinseca la vita e le attività umane vanno ripensati con tutti i servizi connessi, come “entità cooperanti” e non come “entità concorrenti”.

Al riguardo si sottolinea che il pensiero delle entità concorrenti è quello insito nel liberismo che ha portato all’aziendalizzazione esasperata della sanità nazionale che a 45 anni dalla nascita del SSN di tipo universale è oggi sempre più caratterizzato dalla privatizzazione e dalla subordinazione ideologica, economica e culturale al privato.

E da qui si torna immancabilmente ai Livelli Uniformi delle Prestazioni che devono essere garantiti dallo Stato laddove la competenza sia dello Stato, come è auspicabile che sia per la Sanità e l’Istruzione, in contrapposizione ai LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni, che non fanno altro che aumentare le disuguaglianze territoriali e tra i cittadini.

L’uniformità delle prestazioni dei servizi, di tutti i servizi a garanzia dei diritti di cittadinanza, ci viene dalla nostra Costituzione e su questo bisogna far leva in tutte le nostre azioni politiche.

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I minori nel decreto Caivano (di Rosamaria Maggio)

by Redazione Scuola | 30/09/2023 18:21

Mi sono sempre occupata di minori: ero minore anch’io quando a 16 anni, nel gruppo scout di cui facevo parte, fui destinata a coordinare il gruppo “coccinelle”. Ho avuto figlie e nipoti, ho insegnato ad adolescenti per più di 30 anni.

Lo considero un karma. Un karma fortunato.

Da laica, agnostica, ricordo il discorso della montagna, Matteo 18,1-5: “…Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico, se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli.”

Qualcuno dirà: ma ai nostri tempi i ragazzi erano un’altra cosa! E’ un messaggio che ricorre sui social. Vorrei ricordare che “i mitici nostri tempi” erano quelli del terrorismo, dell’LSD, dell’eroina, ecc.

Appare pertanto inquietante questo accanimento contro i giovani, in un paese dove, da un lato si vorrebbe aumentare la natalità e dall’altro si criminalizzano i minori, come se fossero una entità pericolosa da annientare e non rappresentassero invece una fase difficile della vita di ciascuno di noi. Incredibile come questi adulti “perfetti” abbiano totalmente dimenticato il loro passato infantile, pieno di dubbi, tristezze e follie.

Vi è anche una spiegazione scientifica all’eccesso di vitalità che spesso riscontriamo nei nostri giovani.

La ghiandola amigdala è la ghiandola del cervello che ci consente di padroneggiare il lobo frontale per affrontare le situazioni di rischio.

Dalle neuroscienze apprendiamo che nelle ragazze la sua maturazione si completa entro i 22 anni, nei ragazzi entro i 25. Ciò significa che i minori non sono in grado di controllare sempre i loro istinti, fino a porsi in situazioni di pericolo. Non a caso sono proprio i ragazzi che sono mandati in guerra!

Stanti queste premesse, il decreto Caivano appare come il meno adeguato a far fronte a fenomeni di devianza e di rifiuto delle regole.

Vediamo perché.

Il decreto è giustificato dalla “straordinaria necessità e urgenza di prevedere interventi infrastrutturali per fronteggiare situazioni di degrado, vulnerabilità sociale e disagio giovanile nel territorio del comune di Caivano”; dalla “straordinaria necessità e urgenza di introdurre disposizioni per il contrasto alla criminalità minorile e all’elusione scolastica, e per la tutela delle minori vittime di reato;” dall’ “esigenze di rafforzamento delle misure a tutela del rispetto dell’obbligo scolastico, in relazione all’incremento dell’elusione scolastica soprattutto in specifiche aree del territorio nazionale, ed al valore di incoraggiamento alla devianza che tale fenomeno comporta;” dalla “straordinaria necessità ed urgenza di intervenire approntando una più incisiva risposta sanzionatoria, correlandola all’intera durata dell’obbligo scolastico stesso nonché prevedendo misure disincentivanti l’elusione nei confronti degli esercenti la responsabilità genitoriale;” dalla “necessita’ di assicurare l’intervento del giudice della famiglia a tutela dei minori coinvolti in gravi reati di criminalità organizzata”; dalla “straordinaria necessità ed urgenza, in considerazione delle caratteristiche di maggiore pericolosità e lesività acquisite nei tempi recenti dalla criminalità minorile, di approntare una risposta sanzionatoria ed altresì dissuasiva, che mantenga l’attenzione per la specificità della condizione dell’autore di reato minorenne, intervenendo sui presupposti di applicabilità delle misure cautelari ed altresì prevedendo un procedimento anticipato, idoneo al reinserimento e alla rieducazione del minore autore di condotte criminose”; dalla “straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare la tutela dei minori nello spazio cibernetico e rispetto all’offerta di contenuti e servizi on line, al fine di garantirne il benessere e il pieno sviluppo fisico e mentale.”

NDR- dl 15.09.2023 n. 123-

Le parole utilizzate a giustificare l’urgenza di misure introdotte col decreto legge Caivano, entrato in vigore il 17 settembre 2023, sono indicative di un pensiero, di una concezione dei comportamenti minorili, significativo.

Vengono trattati unitariamente la vulnerabilità sociale, la criminalità minorile, la pericolosità sociale e l’abbandono scolastico, denominato quest’ultimo nel decreto, “elusione scolastica”.Viene previsto un modello securitario, cioè un sistema punitivo per i minori a partire dai 12 anni ( ed anche per i genitori).

Anche il termine “elusione” è inadeguato a descrivere il fenomeno dell’abbandono scolastico. E’ un termine più adatto alla materia fiscale. Si tratta dell’aggiramento di una norma in modo lecito e così non è, visto che esiste un obbligo scolastico, ma nel contempo si stabilisce una sanzione a carico dei genitori. Anche sul piano della logica giuridica, questo decreto appare stigmatizzabile.

Oltre quindi ai provvedimenti da applicarsi nel territorio di Caivano, il decreto inasprisce tutte le pene per i minori dai 14 anni, ma il limite dei 12 anni è previsto per l’irrogazione di una Daspo o dell’ammonimento del questore.

Altri interventi, sempre richiesti da chi con i giovani lavora da sempre e mai realizzati, avrebbero dovuto essere messi in campo.

Sicuramente questo è un paese che attende da anni un sistema scolastico a tempo pieno da zero a 19 anni, dove i ragazzi trascorrano la giornata, nello studio, nel gioco, nella socialità, nello sport.

Si preferiscono da sempre interventi minimalisti, non necessariamente più economici, che hanno trasformato la scuola in un grande progettificio, che propone attività integrative non obbligatorie, seguite per lo più da ragazzi che hanno una famiglia presente e cioè da quelli che meno ne avrebbero bisogno. La scuola inclusiva a tempo pieno sarebbe invece un luogo di crescita sociale al quale il paese potrebbe fare riferimento.

Anche di fronte ai casi difficili, le esperienze di maggior successo sono quelle delle comunità dove i ragazzi vengono seguiti da pedagogisti, psicologi, insegnanti e non certo le carceri, ancorché minorili. Cose semplici e ovvie che però la politica di questo paese non ha mai fatte proprie e che oggi appaiono sempre più lontane da chi ci governa, che sembra privo di qualunque alfabeto pedagogico. E nella patria di Maria Montessori, Alberto Manzi, Danilo Dolci, Don Lorenzo Milani, Mario Lodi e Gianni Rodari, solo per citarne alcuni, sembra ancor più grave.

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Una scuola come diritto e non come “gentile concessione” (di Lorella Villa, presidente CIDI-Cagliari)

by Redazione Scuola | 24/09/2023 10:57

 

Negli ultimi decenni la scuola è stata oggetto di politiche di decurtazione dei fondi che conosciamo e delle quali ora constatiamo le devastanti conseguenze. Meno percepibile la portata tragica del processo riformatore che ne ha sfarinato e sgranato il tessuto pubblico, il suo fine politico, riducendola, quando va bene, ad un servizio quasi elargito, concesso dallo Stato ai territori, ai cittadini e alle cittadine.

Queste riforme hanno snaturato il fine che la Costituzione affida alla scuola pubblica: quello di essere il primo grimaldello in grado di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione di sé, di essere presidio di uguaglianza e democrazia. Si è affermato invece un modello di scuola non organizzata per soddisfare i bisogni della società – come dovrebbe essere la scuola pubblica – ma una scuola pubblica perché “di proprietà dello Stato” e più in particolare al servizio delle politiche degli Esecutivi di volta in volta in carica.

Abbiamo avuto così prima la Legge sull’autonomia scolastica che ha portato certamente a snellire i processi amministrativi ma ha ingolfato le istituzioni scolastiche a livello burocratico fino a saturarle. Soprattutto ha manifestato da subito, specie nei centri urbani più grandi, dove è possibile scegliere la scuola dove iscrivere i figli e nella scuola secondaria di secondo grado per lo stesso motivo, una pericolosissima deriva di autoreferenzialità che ha messo gli istituti in competizione tra loro, in una lotta all’ultimo iscritto, pena la perdita dell’autonomia. Occorre invertire la rotta immediatamente rilanciando e promuovendo politiche che riguardino gli ambiti scolastici e portino a ricucire, ago e filo, il tessuto della scuola pubblica, ormai lacerato e rabberciato.

Abbiamo avuto poi la Legge sulla buona scuola che ha immesso nel sistema una logica sempre più sfrenata nel senso della prestazione e della sua misurazione.

Le logiche del mercato e del capitalismo vogliono che quello che non si può misurare non abbia valore. Non c’è governo in questi anni che non abbia ritoccato il sistema di valutazione di uno degli ordini scolastici, il voto, i giudizi, poi di nuovo il voto e così via o non abbia riformato l’Esame di Stato della secondaria di Secondo grado. L’INVALSI con il suo annuale strascico di polemiche ha assunto l’importanza dei Sacri Penati, egemonizzando tutto il discorso pubblico sulla scuola: la scuola italiana non funziona perché le prove Invalsi non vanno bene, non perché registra tassi di abbandono e dispersione altissimi. Il problema in quest’ottica è non classificarsi verso l’alto nelle prove internazionali di valutazione del sistema scolastico, non il fatto che la scuola approfondisca le condizioni dispari di partenza.

Altro aspetto introdotto dalla Legge sulla buona scuola: il connubio sempre più stretto tra scuola e mondo del lavoro. Anzi no: mondo dell’impresa. Con quella legge è stata introdotta l’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO. Anche in questo caso tutta l’enfasi è sulla prestazione. I nostri ragazzi e le nostre ragazze vanno per qualche giorno in un’azienda a imparare i rudimenti del mestiere, voglio ammettere e sperare che sia così anche se so benissimo che in molti casi così non è. Tornano in classe e io chiedo loro: vi hanno fatto vedere il contratto del comparto? No, prof. Qualcuno vi ha detto che esistono le organizzazioni sindacali, le rappresentanze dei lavoratori e delle lavoratrici. Mi guardano con uno sguardo significativamente “bovino”. Qualche tempo fa un ragazzo di 18 anni mi ha chiesto se la Camera del Lavoro fosse l’ufficio di collocamento…. Eppure si ha la pretesa di dire che i nostri ragazzi e le nostre ragazze grazie all’alternanza scuola/lavoro possono conoscere per tempo il mondo del lavoro. Conoscono solo il mondo dell’impresa e della prestazione e iniziano a incamerare l’idea che il lavoro non sia un diritto ma una cosa che ti devi guadagnare gareggiando contro qualcun altro, accettando le regole che ti impongono senza poter discutere e protestare. Questo secondo voi è formare cittadini e cittadine dotati di senso critico? O è allevare polli in batteria pronti a sacrificarsi per il bene del mercato? Grati del salario che viene loro “concesso”?

Perché non chiediamo che gli studenti svolgano obbligatoriamente almeno un terzo del monte ore di PCTO presso le sedi dei sindacati, le camere del lavoro a studiare i contratti collettivi, la legislazione in materia di sicurezza, fatta seriamente, i loro diritti di futuri lavoratori e lavoratrici? E non solo i loro doveri…

Infine l’ultimo trend, la spinta sempre più forte nel senso dell’orientamento. Dall’anno scolastico in corso i Collegi dei docenti dovranno individuare argomenti e attività per almeno 30 ore annuali da dedicare all’orientamento. Si inizierà a “formare” ragazze e ragazzi in senso funzionale al loro inserimento nel mondo del lavoro già dalla secondaria di primo grado, l’ex scuola media. A 11 anni si comincia a formare non il futuro cittadino e la futura cittadina come dovrebbe essere, ma ci si preoccupa di iniziare a formare subito il futuro lavoratore/lavoratrice (o disoccupato/disoccupata), in un’ottica tra l’altro fortemente individualistica e poco basata su una dimensione sociale e di gruppo.

La punta di diamante di questa visione ancillare al mondo dell’impresa da oarte della scuola, è rappresentata dalla “filiera formativa tecnologico-professionale” annunciata da Valditara che prevede il taglio di un anno di studi, esperienze “on the job” fin dai 15 anni, alternanza scuola-lavoro potenziata fino a 400 ore l’anno, ricorso ordinario all’apprendistato di primo livello, insegnanti provenienti dal mondo delle imprese e degli studi professionali, sistema di certificazione delle competenze affidato, neanche a dirlo, all’Invalsi”. Un nuovo canale formativo abbreviato che dovrebbe confluire nei nascenti ITS Academy. I giovani studenti, quelli che non hanno la possibilità di proseguire gli studi universitari, i fragili, etichettati dall’Invalsi, non devono perdere tempo sui banchi: è bene che inizino il prima possibile ad avere una forma mentis adatta al lavoro. Gli studi tecnico-professionali devono garantire la corrispondenza tra domanda e offerta. Lo ha detto chiaramente anche il Ministro Tajani al Meeting di Rimini: “non dobbiamo tutti studiare filosofia e economia; chi può lavorare deve andare a lavorare”. Indovinate chi sono quelli che possono e quindi devono andare a lavorare? Quelli che l’economista Daniele Checci al Festival dell’economia di Trento, alla presenza del ministro Valditara, ha definito “gli sfigati”: quelli che studiano al tecnico e al professionale. Gentile non ha mai sloggiato dalla scuola italiana ma questo è il ritorno in grande spolvero del suo fido scudiero: l’avviamento al lavoro!

E neanche troppo velatamente si sta cercando di far passare un congruo segmento dell’istruzione pubblica dalle mani del pubblico alle mani del privato, e forse anche si sta preparando un nuovo ordine salariale, incastonato nella contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro: a cos’altro dovrebbe servire altrimenti la certificazione delle competenze e il portfolio personale dello studente? Come scriveva Franco Fortini nel 1971 “la scuola media superiore per tutti, al più alto livello di qualità didattica è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico”: ci hanno messo qualche anno ma stanno riuscendo a scardinare l’impianto della scuola democratica immaginata dalla Costituzione, figlia delle riforme degli Anni Settanta.

Infine un’altra minaccia che mi sento di sottolineare e che la “cultura” di quest’ultimo Governo mi pare stia lentamente ma inesorabilmente iniettando nelle vene stremate della scuola italiana: la difesa del nostro patrimonio culturale in senso identitario e diciamo “nazionale” per non dire nazionalista. L’operazione “Liceo del made in Italy” va proprio in questo senso. Nel senso di affermare, cioè, un’idea di cultura affetta da retroscopia, dalla mancanza di una visione della cultura italiana come qualcosa di ancora vivido e vitale da promuovere, una visione angusta e soffocante di un patrimonio italiano come merce da vendere (anche a noi italiani: non dovevamo venire prima di non si sa bene chi? Avete provato a fare i conti in tasca ad una famiglia di 4 persone che volesse andare a visitare il Museo Archeologico di Cagliari o il Museo di Capodimonte o il Museo egizio di Torino? È un vero lusso la cultura in questo Paese!). E sotto traccia, riaffiora carsicamente, il nostro “razzismo culturale”: gli italiani sono migliori degli altri perché siamo la Patria di Leonardo, Michelangelo, Raffaello e prima ancora dell’Impero Romano…

Ma veramente si può ancora intendere la cultura in questo modo piccino per un mondo piccino, rancoroso, impaurito? Cosa se ne dovrebbero fare i nostri figli e le nostre figlie di una cultura solo identitariamente italiana, nazionale?

Non sarebbe meglio iniziare a concepire un’istruzione e un’educazione per i cittadini e le cittadine del pianeta di domani, che concepisca la cultura nazionale come parte di una cultura umana estremamente differenziata, che promuova la convivenza tra diversità, una cultura che educhi il popolo ad essere insieme nazionale, plurale, cosmopolita, democratico, ecologico e pacifista?

Per finire: torniamo a rivendicare e a chiedere una scuola pubblica come DIRITTO sancito dalla Costituzione, una scuola che promuova una cultura comune per la democrazia. Basta con la SCUOLA intesa come servizio concesso dallo Stato in cambio dell’accettazione delle logiche del profitto, della prestazione, del merito come corsa competitiva ad avere di più perché si è prodotto di più, una scuola solo di orientamento al mercato.

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