Guerra ed elezioni: l’insostenibile leggerezza della stampa italiana (di Matteo Meloni)

L’invasione della Russia in Ucraina ha smosso le coscienze di milioni di persone in tutto il mondo, ritrovatesi catapultate nottetempo in un ciclone di informazioni tra le più disparate e in tempo reale. La guerra nel Paese est europeo è stata capace di monopolizzare le tematiche di discussione, alimentando un circo mediatico complesso come non si vedeva da anni, tra immagini dal fronte di desolante annichilamento e testimonianze di civili crude e devastanti.

Per circa tre mesi, infatti, l’opinione pubblica globale ha ricevuto costanti aggiornamenti e breaking news sui più piccoli spostamenti di truppe, sulle dichiarazioni di ministri e capi degli eserciti, sulle promesse di invio di armamenti, portando alla notorietà esperti, o presunti tali, di geopolitica, mai come nel primo semestre del 2022 convocati — è proprio il caso di utilizzare questo termine sportivo, visto il becero tifo da stadio che si è verificato — da tv, quotidiani e dirette social per raccontare lo stato dell’arte di un evento dalla portata mastodontica, che ha inesorabilmente cambiato lo status quo delle relazioni internazionali.

L’Italia, in tal senso, è stata letteralmente protagonista di un fenomeno che ha visto coinvolti direttamente i cittadini, pronti fin dal primo giorno, in larga misura, a sostenere, giustamente, la causa dell’aggredito. In questo frangente, però, si è verificato un parallelo atteggiamento di fastidio verso chi tentava di spiegare le varie posizioni in campo, spesso ritenute una giustificazione dell’aggressore. Un fatto piuttosto sconsolante, degenerato nella compressione della libertà d’espressione di studiosi e critici, trovatisi spesso e volentieri all’angolo, accusati di appoggiare le istanze russe.

Tra liste di proscrizione ed elenchi di personaggi acriticamente inseriti tra i filo putiniani, abbiamo assistito al conio di un termine ambiguo e appositamente negativo, complessista, per coloro i quali che, per l’appunto, raccontavano la complessità degli eventi in corso. Eventi radicati nella storia sia antica che recente, alcuni dei quali non sono neanche stati pubblicizzati a suo tempo da quegli stessi osservatori di punta che occupano oggi i salotti televisivi, diventati meri portavoce non tanto della sofferenza del popolo ucraino invaso illegalmente dall’esercito della Federazione Russa, ma delle politiche atlantiste e più precisamente statunitensi, credendo in maniera cieca nella bontà dell’atteggiamento delle forze occidentali verso la guerra.

Un quadro estremamente ampio e di difficile lettura che, come già capitato in passato, è andato a sgonfiarsi con il calo dell’interesse di lettori, spettatori e utenti del web. È avvenuto nel recente passato con la guerra civile in Siria e in Yemen, con la crisi istituzionale in Libia, con la lotta al terrorismo dell’Isis. Per non parlare del caso dell’occupazione illegale, incancrenitasi da tempo, di Israele in Palestina, dell’invasione statunitense dell’Iraq, del caos in Venezuela.

Circostanze che, nella migliore delle ipotesi, sono state congelate dal mondo dell’informazione mainstream, che quando le tratta lo fa solitamente in modo urlato, senza strumenti analitici, rovesciando sull’opinione pubblica informazioni che creano un vero e proprio corto circuito. Ovvero, quanto sta accadendo in questi giorni con la visita di Nancy Pelosi, speaker della Camera Usa, a Taiwan. Una logica della produzione di notizie finalizzata non ad informare, ma a vendere uno spazio pubblicitario, un punto di share in più, maggiori visualizzazioni — e like — sui social.

A discapito della qualità stessa dell’informazione. Che, come volevasi dimostrare, ha abbandonato le dirette quotidiane dai centri dell’Ucraina ormai noti al grande pubblico, per far spazio, in misura minore, ai fatti di Taipei e, principalmente, alla crisi politica italiana. Perché il giornalismo nostrano è storicamente incentrato sulla politica interna, romanzata come una storia da libro Cuore, con servizi che vengono accompagnati da musiche, e siparietti tra giornalisti e politici, fuori dai palazzi del potere, che sminuiscono totalmente il lavoro degli inviati. Un giornalismo che guarda al suo ombelico e che invece, dalla politica estera — e dal modo di fare giornalismo all’estero — dovrebbe cogliere l’essenza del mettere in difficoltà l’interlocutore esponente di partito, non agevolarlo per una marchetta elettorale senza pudore.

È in questo contesto che ci avviciniamo alle elezioni di settembre. Uno scenario appiattito al ribasso, che non lascia spazio alle proposte politiche, che tiene fuori i temi di reale importanza, e che al contrario abbraccia le sterili polemiche tra leader e che fa il loro stesso gioco d’interesse. Un gioco al quale, amaramente, l’opinione pubblica non ha più interesse a partecipare. Il turnout al prossimo, decisivo appuntamento elettorale darà l’idea della gravità della situazione, in un panorama politico che offre più dubbi che risposte.

Visti i preoccupanti tassi d’inflazione che vanno ad erodere il potere d’acquisto dei cittadini, frutto anche delle scelte in politica estera e delle tensioni internazionali, sono proprio le risposte alle varie crisi sociali ed economiche in atto il vero diritto che gli italiani dovrebbero rivendicare. In questo caso, i tanto vituperati complessisti potrebbero, semmai, aiutare gli elettori ad orientarsi con cognizione di causa in una giungla elettorale minata dalla persistente bulimia informativa, evidentemente piena di incertezze e destinata a rendere ancor più complicata la comprensione della realtà.

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