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Sulla salute mentale in Sardegna e la tragedia di Silì (di Roberto Loddo da manifestosardo.org)

Strana abitudine quella del mondo dei media e dell’informazione di guardare dal buco della serratura le vite dei protagonisti di episodi efferati come quello accaduto sabato pomeriggio nella piccola frazione del comune di Oristano.

Le parole che vengono utilizzate nella cronaca nera spesso ricordano per cura dei dettagli e minuziosità la narrazione delle classiche opere orrorifiche di Bram Stoker e Stephen King. A cosa e a chi può essere utile questa deriva mostruosa e inumana? Certamente non alle vittime.

La quasi totalità degli organi di stampa in queste ore hanno usato la facile immagine di un atto improvviso e violento, il cosiddetto raptus col quale le persone che vivono esperienze di sofferenza cronica o temporanea agiscono episodi di violenza. Una strana parola che riprende un concetto inesistente nella psichiatria contemporanea. L’idea inspiegabile e misteriosa che chiunque può ammazzare è priva di senso, peggio ancora se poi associamo agli autori dei reati diagnosi psichiatriche.

Questo episodio mi ha ricordato, per il modo in cui è stato comunicato e per le parole che sono state scelte, ciò che successe a Salerno nel 2013 quando venne ritrovato il corpo di una donna, forse già morta da tre giorni, uccisa dal figlio con esperienze di sofferenza mentale che aveva già in passato aggredito la madre.

Luciana Libero, una giornalista di Salerno inviò una significativa lettera al Forum della Salute Mentale, spazio che mette in rete le maggiori sigle del movimento basagliano e antiistituzionale. La Libero scriveva parole ancora valide e attuali perché nulla è cambiato dal 2013. La deriva retroscenista del chiedersi cosa c’è dietro qualsiasi azione e mai cosa c’è davanti è ancora oggi la benzina di numerose redazioni. Ancora oggi la stampa è costellata da articoli di cronaca che attraverso titoli degni di film dell’orrore trasmettono l’urgenza di arrivare alla notizia prima di tutti gli altri. Si arriva al traguardo solo se si riesce a svelare dettagli macabri in maniera istantanea e priva di scrupoli. Non importa se vengono calpestate le vite e la dignità delle persone.

La Libero ci invita a fermarci a riflettere. A guardare cosa troviamo davanti all’orrore. A guardare cosa c’è davanti alla paura e all’angoscia, davanti agli occhi di coloro che hanno causato queste tragedie. Perché quello che è accaduto a Silì merita una sola parola: rispetto. Rispetto per una tragedia che può accadere. Accade e può accadere a chiunque e in qualsiasi famiglia che vive dinamiche di fragilità. Le domande che dovremo porci sono altre. C’era qualcuno che si occupava di questa famiglia? Erano sole o sono stati coinvolti i servizi sociali, il centro di salute mentale, i familiari e gli amici?

Perché le tragedie accadono. Accadono nelle famiglie e persino nei luoghi che dovrebbero essere deputati alla cura e al benessere delle persone. Non sapremo mai questa tragedia poteva essere evitata. Ciò che sappiamo di certo è la situazione sempre più drammatica che vive la galassia della salute mentale in Sardegna. Una situazione disastrosa con una parte di precise responsabilità politiche che non partono da ieri ma almeno da vent’anni a questa parte. Scelte politiche, precedenti alla pandemia e alla guerra, scelte politiche contro il nostro Sistema Sanitario Nazionale che hanno compromesso l’efficienza e l’efficacia della garanzia della tutela della salute negli ospedali sardi sempre più in crisi e nella dimensione della cura, della prevenzione e della riabilitazione dei servizi di salute mentale territoriali e anche dei sistemi di protezione sociale.

Non dimentichiamo che la salute mentale è indissolubilmente connessa alle politiche sociali. Il diritto alla casa, il diritto all’abitare, il diritto alla socialità, al lavoro e al reddito sono fondamentali nel garantire una buona presa in carico delle persone dei servizi territoriali. Eppure, nella maggioranza dei servizi di salute mentale non esistono percorsi di cura personalizzati.

Non esiste nemmeno il rispetto dei dritti umani. Dagli ultimi dati del 2022 in Italia si contano solo 19 Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e di cura) in cui non si fa uso della contenzione su 320. Di fatto, nella totalità dei luoghi della cura si preferisce legare ai letti i pazienti in stato d’agitazione. Si cerca di domarli con le fasce e di tramortirli con dosaggi da cavallo di antipsicotici. Una forma di nuovo manicomio, un manicomio chimico.

La salute mentale dovrebbe essere intesa e interpretata come un percorso di guarigione e non come un luogo fisico in cui depositare le persone che non funzionano più. Per utilizzare le parole dello psichiatra e scrittore Piero Cipriano, il Csm dovrebbe essere un posto “dove ci si occupa della miseria, dove si procura un vero lavoro e dove si instaurano delle relazioni. Dovrebbe essere uno spazio aperto, un’agorà in cui puoi andare in qualsiasi momento, anche se non sei un paziente”. I centri di salute mentale al contrario sono stati trasformati in ambulatori abitati da farmaci e psichiatri e orientamenti psicopatologgizzanti fatti solo di sintomi e malattie.

E questo è un cattivo modo di intendere la salute mentale di comunità nei servizi di salute mentale. La salute mentale di comunità non si fonda solo sulla presenza dello psichiatra e dell’infermiere, ma sulla sintesi del contributo di diverse figure professionali che lavorano in equipe, e che, mettendo insieme punti di vista, capacità e modalità di lettura, prendono in carico globalmente le persone e migliorando le loro condizioni. Dall’assistente sociale, all’educatore, al tecnico della riabilitazione psichiatrica e allo psicologo.

Il diritto alla salute mentale e diritto alla guarigione delle cittadine e dei cittadini è stato devastato da una visione neoliberista miope e ideologica che ha relegato ad un numero sempre più ristretto di medici psichiatri e operatori della salute la presa in carico. È del tutto evidente che l’aumento di compiti e responsabilità sul personale sanitario ha delle conseguenze. Delle conseguenze gravi sul peggioramento delle condizioni psichiche e fisiche delle cittadine e dei cittadini che vivono esperienze di salute mentale.

La politica non è riuscita ad opporsi al progressivo impoverimento delle risorse finanziarie e professionali, che hanno portato, in gran parte del territorio nazionale, e in questo caso in Sardegna, ad un grave e pericoloso ridimensionamento dei servizi territoriali. In Sardegna, come denunciato dall’Asarp, stiamo tutt’ora assistendo a un progressivo smantellamento del sistema della salute pubblica nella logica degli accorpamenti e delle riduzioni. L’accorpamento delle Aziende Sanitarie Locali e l’accorpamento dei Dipartimenti di Salute Mentale hanno portato alla conseguente riduzione dei Centri di Salute Mentale e all’assenza di speranza nella guarigione.

Queste logiche vanno contro gli stessi principi dell’articolo 32 della Costituzione, della Legge di Riforma 833 e della legge 180, la legge di riforma psichiatrica, la cosiddetta Legge Basaglia. Servirebbe una rivoluzione basagliana e libertaria. Una nuova rivolta antiistituzionale che unisca in un grande movimento le persone che vivono esperienze di salute mentale, le loro famiglie e gli operatori dei servizi territoriali.

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