Ecosostenibilitá e lavoro, appunti in corso d’opera
Roberto Paracchini
Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani.
“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso”. Questa frase, attribuita a Gandhi, è ricca di suggestioni. Una di queste racconta di un rapporto strettissimo tra noi e il pianeta. Come dire che noi non solo viviamo in questo pianeta ma ne siamo parte e insieme agli altri esseri viventi ne siamo costruiti e lo costruiamo. E ancora: se il nostro diventare esseri migliori aiuta il pianeta allora, non solo possiamo, ma dobbiamo diventare migliori perché dal nostro star bene dipende anche il benessere del mondo in cui viviamo. Più terra terra: se io sto male, stai male anche tu e viceversa. E se tu stai bene, sto bene anch’io e viceversa.
Proviamo a pensare un attimo a una persona a noi cara: se sta bene, in qualche modo ci sentiamo meglio anche noi. A questo punto proviamo a vederci come di fatto siamo, persone che hanno – chi più, chi meno – parenti, familiari, colleghi, amici, conoscenti e altro ancora. E ora proviamo un esperimento mentale in cui ognuna di queste persone con cui abbiamo alcuni dei rapporti accennati, ne abbia a sua volta altrettanti, di rapporti. Il risultato sarà una rete, una rete quasi infinita di relazioni e collegamenti. Ma non c’è collegamento alcuno senza il trasferimento dall’uno all’altro di un qualcosa in un circolo di dare-avere e avere-dare: fosse anche solo un sorriso, uno sguardo, una smorfia, una chiacchiera, un saluto, un pettegolezzo, una sensazione, un’intesa e via di seguito. In pratica avremmo un numero enorme di persone che si trasferiscono l’un l’altro lo star bene o lo star male nelle infinite gradazioni e sfumature che una vita può rendere possibile. Dalla storia alla psicologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla sociologia alla chimica, dall’antropologia all’archeologia, dalla letteratura alla filosofia non esiste ormai settore del sapere che non sottolinei l’inscindibile interrelazione che lega tra loro gli esseri viventi, e non solo, che vivono e dimorano su questa Terra.
A questo punto viene spontaneo chiedersi se esiste un qualcosa o un modus vivendi che potrebbe far sì che questo reciproco trasferirsi qualcosa, ovvero il risultato di qualsiasi interrelazione, aiuti tutti gli esseri viventi a stare meglio.
Detto questo, e tornando alla frase di Gandhi, si aprono i due problemi su cui stiamo riflettendo: il primo riguarda l’ambiente e l’ecosostenibilità, il secondo il lavoro. Due ambiti apparentemente distanti, in realtà inscindibilmente connessi. Vediamo.
Gli scienziati affermano che i cambiamenti climatici hanno visto il susseguirsi di diverse fasi; sottolineano anche che oggi questo cambiamento è fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani, dal modo aggressivo di intendere il rapporto con l’ambiente, che viene visto come una entità non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare, pianificare e dominare, consumando senza criterio le sue risorse.
A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’idea, su che cosa sia quel qualcosa che chiamiamo ambiente, decisamente datata ed errata.
Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente legati ad una ipotetica idea di natura, pre-intervento umano, considerata all’origine di tutto ciò che è, e che si trova attorno agli esseri umani, come se noi potessimo esserne fuori. Anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (in greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. In questa prospettiva – che possiamo chiamare dualistica – l’essere umano non è considerato parte integrante della biosfera (o ecosfera), ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno, mentre lui resta al centro. Un passaggio importante, non solo perché propulsore di atteggiamenti antropocentrici, ma anche in quanto inserisce le basi di quel dualismo accennato che ha posto l’essere umano come un qualcosa di qualitativamente differente e, in quanto tale, concettualmente al centro di comando; di contro, ha messo l’ambiente e/o la realtà esterna dall’altro, di lato, ai margini si potrebbe dire, quindi come altro da sé. Questa impostazione ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale.
Considerare l’ambiente altro da sé ha contribuito a far ignorare che gli esseri umani sono essi stessi un prodotto dell’ambiente, a pieno diritto e umilmente in tutto e per tutto interni alla biosfera, ovvero a quella parte della terra in cui si riscontrano le condizioni per la vita animale e vegetale; e che comprende la parte bassa dell’atmosfera, tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera fino a due chilometri di profondità. In parallelo questa visione dualistica (proveniente anche da Cartesio: res cogitans, gli esseri umani; e res extensa, tutto il resto) ha spianato la strada alla trasformazione della conoscenza da curiosità e necessità, per rapportarsi meglio con l’ambiente, a controllo sempre più pianificante, sino a diventare dominio incondizionato. Il che non significa affatto, sia chiaro, che le scienze abbiamo perso il loro valore conoscitivo; tutt’altro, ma che alcuni suoi aspetti sono stati strumentalizzati in alcune applicazioni pratiche. Un quadro che ha condotto, pian piano, anche a uno sviluppo economico fuori controllo e spesso subordinato agli interessi più rapaci del capitalismo contemporaneo, compreso quello più recente, detto della sorveglianza, ovvero un sistema di potere fondato sulla “schedatura dei movimenti” delle persone all’interno della rete (Amazon, Facebook e Google per citare le corporation più grandi).
Uno sviluppo fuori controllo, si è detto, che ha determinato una rapina sconsiderata delle risorse naturali col rischio reale di una catastrofe ecologica in quanto ha compromesso l’equilibrio di autoregolazione che interessa i vari attori del teatro della biosfera. Il tutto, schematizzando, è stato implicitamente (e interessatamente) considerato come un’evoluzione eticamente accettabile in quanto l’essere umano è pensante, animato (dal latino animus, soffio vitale), mentre l’altro da sé, l’ambiente, la res extensa, no, è non pensante, senza soffio vitale; quindi senz’anima. In pratica è materia bruta, dominabile e sfruttabile senza vincolo e limite alcuno. E i disastri ambientali, di cui il riscaldamento globale è l’effetto più macroscopico, si cominciano a vedere in qualunque parte del mondo.
Negli ultimi decenni, però, grazie alla crescita della ricerca scientifica, alle parallele sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e alla spinta dei giovani stimolati da Greta Thunberg, si sta sempre più consolidando la consapevolezza che la vita su questo pianeta, e soprattutto quella degli esseri umani, è e sarà sempre più strettamente legata alla salute dell’ambiente, ovvero all’ecosostenibilità delle nostre azioni.
Un concetto, quest’ultimo determinante. Eco-sostenibilità: eco, dal greco òikos, dimora e, modernamente, ambiente ove si vive; e sostenibilità, da compatibile, termine oggi usato per indicare qualcosa che si concilia con qualcos’altro ma che, a mio parere, deve richiamare soprattutto l’importante significato originario di compassione e cura, dal greco symphateia, patire insieme, provare emozioni con, quindi sentirsi parte dell’altro, del mondo in questo caso e di conseguenza averne cura. Tutti, quindi, siamo chiamati alla responsabilità delle nostre scelte perché ogni nostra scelta, direttamente o indirettamente, comporta un’azione che agisce sull’ambiente e, di conseguenza, anche su di noi. Ed ecco che si torna, spontaneamente, al discorso iniziale dell’interrelazione e interdipendenza che, coinvolgendo tutti e tutto (l’animato e l’inanimato), riscatta il concetto di ambiente rendendolo centro e dimora dinamica dell’esistente. Il che significa che ogni essere vivente sin dai primi microrganismi (comparsi circa 3,5 miliardi di anni fa) concorre a formare l’ambiente e viceversa da questo è co-formato. Ma se è così, come migliaia di evidenze scientifiche sembrano dimostrare, allora deve essere salvaguardato e valorizzato ogni luogo-ambiente in cui l’evoluzione biologica ha posto i differenti esseri viventi nel movimento e nella dialettica continua dell’ecosistema, pena un effetto domino tragico ed esponenziale di cui già intravediamo i segnali negativi.
In questo quadro si situa l’altro problema accennato all’inizio di queste brevi e schematiche riflessioni, il lavoro o, meglio, la sua centralità, logica conseguenza di un discorso coerente sull’ecosostenibilità. Vediamo.
Salvaguardare l’ecosostenibilità significa agire per la valorizzazione di tutti gli ambienti specifici in cui abitano gli esseri viventi, vegetali compresi, in modo da permettere che le loro caratteristiche non vengano alterate e si promuova la dialettica della biodiversità. Condizione indispensabile per l’equilibrio dinamico della biosfera, che contribuisce anche a governare i cicli biogeochimici e a stabilizzare il clima, situazione che sta già incontrando tante crepe. E visto anche che ognuno di quegli ambienti specifici, come già detto e come anche la scienza ecologica insegna, è strettamente interconnesso con gli altri ambienti, sarebbe fortemente negativo lasciar fuori la specie esseri umani dal discorso dell’ecosostenibilità.
Sia chiaro: riportare gli esseri umani in una dimensione ecosostenibile non significa affatto bypassare scienza e tecnica; semmai utilizzare la ricerca scientifica per sviluppare meglio le energie alternative e affinare le modalità di salvaguardia ambientale a tutti i livelli con più raffinati modelli di vita. Rimodulare i consumi energetici significa anche considerare adeguatamente i singoli ambienti in cui gli esseri viventi abitano e le caratteristiche specifiche che permettono loro di vivere e non di estinguersi. Prendiamo, ad esempio, i gorilla: ve ne sono diversi tipi, ma tutti vivono in gruppi, per lo più nelle foreste umide tropicali e sub tropicali africane e si nutrono in prevalenza di vegetali. Permettere loro di vivere significa salvaguardare il loro habitat, quindi il loro modus vivendi specifico. Oppure consideriamo le api, la cui funzione è sotto gli occhi di tutti: continuando ad immettere nell’ambiente le sostanze inquinanti che le disorientano si impedisce loro, ad esempio, di esprimersi con le danze particolari utilizzate per comunicare, provocando i danni già lamentati da apicoltori e scienziati. Per non parlare delle piante, che sono per noi vitali, che, oltre ai fiori, hanno “inventato” sistemi sofisticatissimi di comunicazione tra loro e gli altri esseri viventi. Ma gli esempi potrebbero continuare per sottolineare come ogni piccolo essere vivente abbia il suo indispensabile ruolo.
Lo stesso vale per gli esseri umani e per le caratteristiche che li contraddistinguono, tante certamente, come le neuroscienze disvelano in continuazione. Ma si vogliono qui affrontare solo alcuni aspetti socio-antropologici degli esseri umani su cui c’è un assenso di massima in quanto tutti ne riconoscono l’importanza nella caratterizzazione dell’Homo sapiens: le specifiche capacità linguistiche, la propensione alla socialità e lo sviluppo della cultura. Aspetti, questi, fortemente intrecciati tra loro, come la storia, sin dalla preistoria, permette di ricostruire. E che a nostro parere presentano anche un minimo comun denominatore, quello del lavoro, appunto. E qui torniamo ai due punti iniziali, l’ambiente declinato in termini di ecosostenibilità per gli esseri umani e il lavoro.
Secondo l’Enciclopedia Treccani per lavoro si intende “l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”. Nell’Oxford Dictionary la definizione è più concisa ed essenziale: “Activity involving mental or physical effort done in order to achieve a purpose or result”. Si tratta di sintesi-concettuali che accolgono la civiltà giuridica dei diritti della persona lasciandosi alle spalle l’idea del lavoro sintetizzata nel termine latino labor (sforzo, fatica, sofferenza fisica). In entrambe le definizioni citate è invece evidente l’importanza del fare qualcosa in rapporto ad altri, quindi della socialità; del porsi un progetto (per ottenere un risultato), quindi della cultura; e del linguaggio, quindi della comunicazione simbolica.
Secondo Colin Renfrew (membro della British Academy e professore emerito all’Università di Cambridge, uno dei più autorevoli archeologi contemporanei) lo sviluppo di queste tre caratteristiche ha determinato il punto di svolta o, se si preferisce, il salto cognitivo dell’Homo sapiens. Esplosioni creative che si sono sviluppate in diversi momenti temporali e geografici rilevabili dalla presenza di sofisticati manufatti e stili di vita, non spiegabili però da quella che altri studiosi hanno chiamato “rivoluzione umana”, con riferimento alla comparsa dell’Homo sapiens. Il che significa che si tratta di progressi non riferibili a mutamenti genetici, visto anche che queste “esplosioni” si sono verificate a macchia di leopardo. Per Renfrew questi sviluppi creativi si sono avuti soprattutto “con l’aumento esponenziale della varietà dell’impegno relazionale fra gli uomini e il mondo materiale, mediato dall’impiego di simboli”. Una svolta prodotta soprattutto “con l’affermarsi della sedentarizzazione”, la formazione di comunità residenziali, ma presente anche in altri momenti.
Considerazioni che permettono di affermare, come ipotesi esplicativa ovviamente, che l’aspetto relazionale, simbolico e culturale, siano caratteristiche fondanti dell’Homo sapiens. E che, a ben guardare, siano anche le caratteristiche che contraddistinguono il nucleo centrale del concetto di lavoro inteso nel senso moderno (delle due definizioni accennate) come creatore di senso e dignità. Un fatto possibile proprio perché in questa prospettiva il lavoro diventa produttore di relazioni reciproche con l’ambiente di cui si fa parte, quindi non unidirezionali e di dominio. Già Karl Marx, circa un secolo e mezzo fa, pose le relazioni umane, nella produzione, come prioritarie rispetto ai mezzi. Oggi il mondo è cambiato, ugualmente i modi di produzione, ma la ricchezza concettuale di un lavoro non alienato e per tutti resta.
In queste schematiche riflessioni, infine, quel che si è ritenuto importante sottolineare è lo stretto legame che sussiste tra ecosostenibilità e lavoro umano: due concetti che possono e sempre dovrebbero, viaggiare insieme valorizzandosi a vicenda.
Ecosostenibilitá e lavoro, appunti in corso d’opera
Ecosostenibilitá e lavoro, appunti in corso d’opera
Roberto Paracchini
Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani.
“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso”. Questa frase, attribuita a Gandhi, è ricca di suggestioni. Una di queste racconta di un rapporto strettissimo tra noi e il pianeta. Come dire che noi non solo viviamo in questo pianeta ma ne siamo parte e insieme agli altri esseri viventi ne siamo costruiti e lo costruiamo. E ancora: se il nostro diventare esseri migliori aiuta il pianeta allora, non solo possiamo, ma dobbiamo diventare migliori perché dal nostro star bene dipende anche il benessere del mondo in cui viviamo. Più terra terra: se io sto male, stai male anche tu e viceversa. E se tu stai bene, sto bene anch’io e viceversa.
Proviamo a pensare un attimo a una persona a noi cara: se sta bene, in qualche modo ci sentiamo meglio anche noi. A questo punto proviamo a vederci come di fatto siamo, persone che hanno – chi più, chi meno – parenti, familiari, colleghi, amici, conoscenti e altro ancora. E ora proviamo un esperimento mentale in cui ognuna di queste persone con cui abbiamo alcuni dei rapporti accennati, ne abbia a sua volta altrettanti, di rapporti. Il risultato sarà una rete, una rete quasi infinita di relazioni e collegamenti. Ma non c’è collegamento alcuno senza il trasferimento dall’uno all’altro di un qualcosa in un circolo di dare-avere e avere-dare: fosse anche solo un sorriso, uno sguardo, una smorfia, una chiacchiera, un saluto, un pettegolezzo, una sensazione, un’intesa e via di seguito. In pratica avremmo un numero enorme di persone che si trasferiscono l’un l’altro lo star bene o lo star male nelle infinite gradazioni e sfumature che una vita può rendere possibile. Dalla storia alla psicologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla sociologia alla chimica, dall’antropologia all’archeologia, dalla letteratura alla filosofia non esiste ormai settore del sapere che non sottolinei l’inscindibile interrelazione che lega tra loro gli esseri viventi, e non solo, che vivono e dimorano su questa Terra.
A questo punto viene spontaneo chiedersi se esiste un qualcosa o un modus vivendi che potrebbe far sì che questo reciproco trasferirsi qualcosa, ovvero il risultato di qualsiasi interrelazione, aiuti tutti gli esseri viventi a stare meglio.
Detto questo, e tornando alla frase di Gandhi, si aprono i due problemi su cui stiamo riflettendo: il primo riguarda l’ambiente e l’ecosostenibilità, il secondo il lavoro. Due ambiti apparentemente distanti, in realtà inscindibilmente connessi. Vediamo.
Gli scienziati affermano che i cambiamenti climatici hanno visto il susseguirsi di diverse fasi; sottolineano anche che oggi questo cambiamento è fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani, dal modo aggressivo di intendere il rapporto con l’ambiente, che viene visto come una entità non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare, pianificare e dominare, consumando senza criterio le sue risorse.
A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’idea, su che cosa sia quel qualcosa che chiamiamo ambiente, decisamente datata ed errata.
Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente legati ad una ipotetica idea di natura, pre-intervento umano, considerata all’origine di tutto ciò che è, e che si trova attorno agli esseri umani, come se noi potessimo esserne fuori. Anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (in greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. In questa prospettiva – che possiamo chiamare dualistica – l’essere umano non è considerato parte integrante della biosfera (o ecosfera), ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno, mentre lui resta al centro. Un passaggio importante, non solo perché propulsore di atteggiamenti antropocentrici, ma anche in quanto inserisce le basi di quel dualismo accennato che ha posto l’essere umano come un qualcosa di qualitativamente differente e, in quanto tale, concettualmente al centro di comando; di contro, ha messo l’ambiente e/o la realtà esterna dall’altro, di lato, ai margini si potrebbe dire, quindi come altro da sé. Questa impostazione ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale.
Considerare l’ambiente altro da sé ha contribuito a far ignorare che gli esseri umani sono essi stessi un prodotto dell’ambiente, a pieno diritto e umilmente in tutto e per tutto interni alla biosfera, ovvero a quella parte della terra in cui si riscontrano le condizioni per la vita animale e vegetale; e che comprende la parte bassa dell’atmosfera, tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera fino a due chilometri di profondità. In parallelo questa visione dualistica (proveniente anche da Cartesio: res cogitans, gli esseri umani; e res extensa, tutto il resto) ha spianato la strada alla trasformazione della conoscenza da curiosità e necessità, per rapportarsi meglio con l’ambiente, a controllo sempre più pianificante, sino a diventare dominio incondizionato. Il che non significa affatto, sia chiaro, che le scienze abbiamo perso il loro valore conoscitivo; tutt’altro, ma che alcuni suoi aspetti sono stati strumentalizzati in alcune applicazioni pratiche. Un quadro che ha condotto, pian piano, anche a uno sviluppo economico fuori controllo e spesso subordinato agli interessi più rapaci del capitalismo contemporaneo, compreso quello più recente, detto della sorveglianza, ovvero un sistema di potere fondato sulla “schedatura dei movimenti” delle persone all’interno della rete (Amazon, Facebook e Google per citare le corporation più grandi).
Uno sviluppo fuori controllo, si è detto, che ha determinato una rapina sconsiderata delle risorse naturali col rischio reale di una catastrofe ecologica in quanto ha compromesso l’equilibrio di autoregolazione che interessa i vari attori del teatro della biosfera. Il tutto, schematizzando, è stato implicitamente (e interessatamente) considerato come un’evoluzione eticamente accettabile in quanto l’essere umano è pensante, animato (dal latino animus, soffio vitale), mentre l’altro da sé, l’ambiente, la res extensa, no, è non pensante, senza soffio vitale; quindi senz’anima. In pratica è materia bruta, dominabile e sfruttabile senza vincolo e limite alcuno. E i disastri ambientali, di cui il riscaldamento globale è l’effetto più macroscopico, si cominciano a vedere in qualunque parte del mondo.
Negli ultimi decenni, però, grazie alla crescita della ricerca scientifica, alle parallele sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e alla spinta dei giovani stimolati da Greta Thunberg, si sta sempre più consolidando la consapevolezza che la vita su questo pianeta, e soprattutto quella degli esseri umani, è e sarà sempre più strettamente legata alla salute dell’ambiente, ovvero all’ecosostenibilità delle nostre azioni.
Un concetto, quest’ultimo determinante. Eco-sostenibilità: eco, dal greco òikos, dimora e, modernamente, ambiente ove si vive; e sostenibilità, da compatibile, termine oggi usato per indicare qualcosa che si concilia con qualcos’altro ma che, a mio parere, deve richiamare soprattutto l’importante significato originario di compassione e cura, dal greco symphateia, patire insieme, provare emozioni con, quindi sentirsi parte dell’altro, del mondo in questo caso e di conseguenza averne cura. Tutti, quindi, siamo chiamati alla responsabilità delle nostre scelte perché ogni nostra scelta, direttamente o indirettamente, comporta un’azione che agisce sull’ambiente e, di conseguenza, anche su di noi. Ed ecco che si torna, spontaneamente, al discorso iniziale dell’interrelazione e interdipendenza che, coinvolgendo tutti e tutto (l’animato e l’inanimato), riscatta il concetto di ambiente rendendolo centro e dimora dinamica dell’esistente. Il che significa che ogni essere vivente sin dai primi microrganismi (comparsi circa 3,5 miliardi di anni fa) concorre a formare l’ambiente e viceversa da questo è co-formato. Ma se è così, come migliaia di evidenze scientifiche sembrano dimostrare, allora deve essere salvaguardato e valorizzato ogni luogo-ambiente in cui l’evoluzione biologica ha posto i differenti esseri viventi nel movimento e nella dialettica continua dell’ecosistema, pena un effetto domino tragico ed esponenziale di cui già intravediamo i segnali negativi.
In questo quadro si situa l’altro problema accennato all’inizio di queste brevi e schematiche riflessioni, il lavoro o, meglio, la sua centralità, logica conseguenza di un discorso coerente sull’ecosostenibilità. Vediamo.
Salvaguardare l’ecosostenibilità significa agire per la valorizzazione di tutti gli ambienti specifici in cui abitano gli esseri viventi, vegetali compresi, in modo da permettere che le loro caratteristiche non vengano alterate e si promuova la dialettica della biodiversità. Condizione indispensabile per l’equilibrio dinamico della biosfera, che contribuisce anche a governare i cicli biogeochimici e a stabilizzare il clima, situazione che sta già incontrando tante crepe. E visto anche che ognuno di quegli ambienti specifici, come già detto e come anche la scienza ecologica insegna, è strettamente interconnesso con gli altri ambienti, sarebbe fortemente negativo lasciar fuori la specie esseri umani dal discorso dell’ecosostenibilità.
Sia chiaro: riportare gli esseri umani in una dimensione ecosostenibile non significa affatto bypassare scienza e tecnica; semmai utilizzare la ricerca scientifica per sviluppare meglio le energie alternative e affinare le modalità di salvaguardia ambientale a tutti i livelli con più raffinati modelli di vita. Rimodulare i consumi energetici significa anche considerare adeguatamente i singoli ambienti in cui gli esseri viventi abitano e le caratteristiche specifiche che permettono loro di vivere e non di estinguersi. Prendiamo, ad esempio, i gorilla: ve ne sono diversi tipi, ma tutti vivono in gruppi, per lo più nelle foreste umide tropicali e sub tropicali africane e si nutrono in prevalenza di vegetali. Permettere loro di vivere significa salvaguardare il loro habitat, quindi il loro modus vivendi specifico. Oppure consideriamo le api, la cui funzione è sotto gli occhi di tutti: continuando ad immettere nell’ambiente le sostanze inquinanti che le disorientano si impedisce loro, ad esempio, di esprimersi con le danze particolari utilizzate per comunicare, provocando i danni già lamentati da apicoltori e scienziati. Per non parlare delle piante, che sono per noi vitali, che, oltre ai fiori, hanno “inventato” sistemi sofisticatissimi di comunicazione tra loro e gli altri esseri viventi. Ma gli esempi potrebbero continuare per sottolineare come ogni piccolo essere vivente abbia il suo indispensabile ruolo.
Lo stesso vale per gli esseri umani e per le caratteristiche che li contraddistinguono, tante certamente, come le neuroscienze disvelano in continuazione. Ma si vogliono qui affrontare solo alcuni aspetti socio-antropologici degli esseri umani su cui c’è un assenso di massima in quanto tutti ne riconoscono l’importanza nella caratterizzazione dell’Homo sapiens: le specifiche capacità linguistiche, la propensione alla socialità e lo sviluppo della cultura. Aspetti, questi, fortemente intrecciati tra loro, come la storia, sin dalla preistoria, permette di ricostruire. E che a nostro parere presentano anche un minimo comun denominatore, quello del lavoro, appunto. E qui torniamo ai due punti iniziali, l’ambiente declinato in termini di ecosostenibilità per gli esseri umani e il lavoro.
Secondo l’Enciclopedia Treccani per lavoro si intende “l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”. Nell’Oxford Dictionary la definizione è più concisa ed essenziale: “Activity involving mental or physical effort done in order to achieve a purpose or result”. Si tratta di sintesi-concettuali che accolgono la civiltà giuridica dei diritti della persona lasciandosi alle spalle l’idea del lavoro sintetizzata nel termine latino labor (sforzo, fatica, sofferenza fisica). In entrambe le definizioni citate è invece evidente l’importanza del fare qualcosa in rapporto ad altri, quindi della socialità; del porsi un progetto (per ottenere un risultato), quindi della cultura; e del linguaggio, quindi della comunicazione simbolica.
Secondo Colin Renfrew (membro della British Academy e professore emerito all’Università di Cambridge, uno dei più autorevoli archeologi contemporanei) lo sviluppo di queste tre caratteristiche ha determinato il punto di svolta o, se si preferisce, il salto cognitivo dell’Homo sapiens. Esplosioni creative che si sono sviluppate in diversi momenti temporali e geografici rilevabili dalla presenza di sofisticati manufatti e stili di vita, non spiegabili però da quella che altri studiosi hanno chiamato “rivoluzione umana”, con riferimento alla comparsa dell’Homo sapiens. Il che significa che si tratta di progressi non riferibili a mutamenti genetici, visto anche che queste “esplosioni” si sono verificate a macchia di leopardo. Per Renfrew questi sviluppi creativi si sono avuti soprattutto “con l’aumento esponenziale della varietà dell’impegno relazionale fra gli uomini e il mondo materiale, mediato dall’impiego di simboli”. Una svolta prodotta soprattutto “con l’affermarsi della sedentarizzazione”, la formazione di comunità residenziali, ma presente anche in altri momenti.
Considerazioni che permettono di affermare, come ipotesi esplicativa ovviamente, che l’aspetto relazionale, simbolico e culturale, siano caratteristiche fondanti dell’Homo sapiens. E che, a ben guardare, siano anche le caratteristiche che contraddistinguono il nucleo centrale del concetto di lavoro inteso nel senso moderno (delle due definizioni accennate) come creatore di senso e dignità. Un fatto possibile proprio perché in questa prospettiva il lavoro diventa produttore di relazioni reciproche con l’ambiente di cui si fa parte, quindi non unidirezionali e di dominio. Già Karl Marx, circa un secolo e mezzo fa, pose le relazioni umane, nella produzione, come prioritarie rispetto ai mezzi. Oggi il mondo è cambiato, ugualmente i modi di produzione, ma la ricchezza concettuale di un lavoro non alienato e per tutti resta.
In queste schematiche riflessioni, infine, quel che si è ritenuto importante sottolineare è lo stretto legame che sussiste tra ecosostenibilità e lavoro umano: due concetti che possono e sempre dovrebbero, viaggiare insieme valorizzandosi a vicenda.
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Presidente Scuola di Cultura Politica