La libertà di stampa soffre in un mondo che va dimenticando la cultura dei diritti (di Antonello Murgia)


L’International Federation of Journalists ha comunicato (fig. 1) che nel 2021 i giornalisti uccisi sono stati 47, l’anno scorso 67, mentre nel 2023 che per questo è stato definito l’anno orribile della libertà di stampa, sono balzati a 120 anche a causa della mattanza di Gaza dove ne sono morti 75 cioè quasi 2/3 del totale riconosciuto.

Non è un caso che siano morti soprattutto là dove maggiore è in questo momento l’abuso del potere. E va ricordato che la cosa non dipende solo dai bombardamenti indiscriminati: i giornalisti sono stati uccisi anche per il lavoro che svolgevano e mentre indossavano i giubbotti che li qualificavano come stampa. E quando ciò è accaduto, vedi il caso della giornalista palestino-americana Shireen Abu Akleh, uccisa deliberatamente nel 2022 in Cisgiordania dai cecchini israeliani, il Governo Netanyahu ha rifiutato di aprire un’inchiesta: si è trattato di un vero e proprio omicidio per far tacere una voce e un’emittente (al-Jazeera) scomode per il potere sionista. Ma il discorso è analogo per i giornalisti uccisi da mandanti politici altrove, come è successo, per citare i casi più noti all’opinione pubblica, al saudita Jamal Khashoggi o alla russa Anna Politkovskaja: difficilmente mandanti ed esecutori pagano per i loro reati.
Il rapporto di un anno fa dell’osservatorio internazionale dei diritti umani Human Rights Watch ha messo in evidenza una tendenza che è stata sottolineata con preoccupazione dalla Società INformazione (v. fig. 2).
E’ una tendenza che a un anno di distanza è sempre più confermata e nella quale ci sono 3 elementi che descrivono bene l’attuale stato di salute dell’informazione:
• il primo è la delegittimazione del diritto internazionale nato dopo la 2° guerra mondiale (DUDU, etc.) che proclamava la cultura dei diritti umani fondamentali e imponeva la risoluzione delle controversie internazionali attraverso il dialogo e la trattativa e non con la guerra;
• il secondo è l’adozione, in particolare da parte delle grandi potenze, del cosiddetto doppio standard e cioè quello per i Governi amici (o sudditi), dai quali accettare anche crimini efferati, e quello per il resto del mondo, dal quale pretendere invece il rispetto dei diritti universali. E’ un problema del quale i media sono in parte vittime, per le intimidazioni che subiscono dal potere, ma nell’Occidente e nel nostro Paese sono più spesso conniventi a causa di un rapporto “poco sano” con il potere politico e con quello economico e che li porta spesso ad autocensure quando non a veri e propri atteggiamenti di propaganda. Il fenomeno è evidente anche nel servizio pubblico della RAI nel quale l’informazione indipendente è stata sostituita dalla lottizzazione in cui è possibile sentire anche voci discordi, ma che comunque esprimono l’interesse di una parte più che l’obiettività giornalistica. Anche su questo problema in Italia vige purtroppo un doppio standard, quello di lamentarsi della lottizzazione quando si è in posizione debole e procedere con entusiasmo alla stessa quando si detiene il potere;
• Il terzo elemento da rimarcare è la pericolosa tendenza in atto nei Paesi democratici ad avvicinarsi, sul tema dei diritti, ai comportamenti dei regimi autoritari. C’è uno scivolamento verso quella che è stata chiamata “democratura” e che osserviamo anche in Italia, cioè un regime che mantiene principi formali di democrazia, ma che esercita pratiche autoritarie in ambito di sicurezza, diritti civili e del lavoro, etc. E il ruolo di sentinella della democrazia che i media dovrebbero svolgere con la denuncia della deriva autoritaria è spesso assente quando non convertito in approvazione.
Reporter senza frontiere ogni anno stila un’apprezzata classifica sulla libertà di stampa di 180 Paesi. E’ interessante confrontare la posizione dell’Italia negli ultimi 2 anni (v. fig. 3): il dato complessivo, e cioè il passaggio dalla 58a alla 41aposizione, è il risultato della media delle posizioni nelle 5 voci che compongono la rilevazione:politico, economico, giuridico, sociale e di sicurezza. Per ogni voce è indicata, sotto ogni posizione, il punteggio che l’ha determinata e che può andare da 0 (il peggiore) a 100 (il migliore). La prima cosa che vorrei segnalare è che il balzo in avanti di 17 posizioni è stato determinato in misura significativa anche dal peggioramento della performance degli altri Paesi. Lo si capisce in particolare osservando l’indicatore politico: nel 2022 la posizione dell’Italia su questa singola voce era la 57a con un punteggio di 65,89. Nell’ultimo anno c’è stato un miglioramento di 5 posizioni nonostante il punteggio sia pur leggermente peggiorato(64,20). Questo perché la tendenza generale, mondiale, è al peggioramento delle condizioni di libertà della stampa;
Seconda annotazione: il miglioramento della performance è avvenuto nonostante il peggioramento dei condizionamenti socio-culturali e risulta determinato in parte da minori condizionamenti economici imposti in particolare dai proprietari dei media o da partner commerciali e inserzionisti, ma soprattutto è dovuto al marcato miglioramento del quadro giuridico (balzo di 32 posizioni) e della sicurezza (balzo di 33 posizioni). Per quanto riguarda la sicurezza, per fortuna gli omicidi dei giornalisti sono rari e abbastanza lontani nel tempo: l’ultimo fu Andrea Rocchelli, ucciso in Ucraina 10 anni fa. Tuttavia, le manifestazioni di violenza e le intimidazioni non sono rare e circa 15 giornalisti vivono attualmente sotto scorta perché in pericolo di vita. Inoltre in questo indicatore rientrano anche i danni professionali come la perdita del posto di lavoro di cui chi non si assoggetta alla “linea editoriale” è spesso vittima. Il quadro giuridico e cioè la valutazione in base a censure, libertà di accesso alle fonti, normativa, etc. non mi sembra che sia migliorato nell’ultimo anno e ho difficoltà a capire, pur tenendo conto del peggioramento della performance degli altri Paesi, il sensibile balzo su questo indicatore come su quello della sicurezza.
E discorso analogo vale per l’indicatore politico: a fronte del leggero miglioramento che è stato calcolato, registriamo, in direzione contraria, preoccupanti provvedimenti che, essendo ancora in itinere, saranno probabilmente valutati nel prossimo rapporto: mi riferisco al divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare e i contenuti dei procedimenti giudiziari fino alla fine dell’udienza preliminare, che è stato votato dalla Camera il 19 dicembre con la cosiddetta legge bavaglio, ed al recente provvedimento che limita l’utilizzo e rende sostanzialmente incomprensibili le intercettazioni. Tutto questo per dire che le preoccupazioni per la libertà di stampa non mancano e che il quadro che ci troviamo di fronte sembra presentare tinte più fosche rispetto a quanto la classifica di Reporter senza frontiere indicherebbe.
Il Report 2023 di Human Rights Watch riporta la notizia che le Questure hanno impedito ai migranti di Paesi diversi dall’Ucraina di presentare le loro domande d’asilo (v. fig. 4). Data l’omogeneità del comportamento sul territorio nazionale, la cosa appare evidentemente accaduta in base ad una circolare del Ministro degli Interni. La domanda che sorge spontanea, rispetto al tema della libertà di stampa è: chi conosceva questa notizia, ma soprattutto chi l’ha vista pubblicata sui media più importanti? La nostra Costituzione e la DUDU prevedono il diritto d’asilo per i cittadini che abbiano le caratteristiche personali per richiederlo e non per le etnie. Tutta la solidarietà nei confronti degli ucraini costretti a scappare dal loro Paese aggredito, ma nei confronti degli altri migranti è stato compiuto un atto discriminatorio. Era importante darne conto ai cittadini? Penso proprio di sì, ma non mi risulta che la cosa sia avvenuta a parte qualche eccezione nella quale peraltro il canale preferenziale accordato agli ucraini è stato generalmente giustificato dall’urgenza che però non è stata riconosciuta per altri eventi altrettanto o più drammatici (v. bombardamento di Gaza). Questo per dire che i condizionamenti che la stampa subisce sono forti, ma anch’essa ci mette di suo, spesso partecipando volontariamente all’adozione del doppio standard.
In questa situazione generale che ho cercato pur brevemente di descrivere, si inserisce la vicenda del giornalista Matteo Meloni che dalla rivista nella quale scriveva ha subìto prima una censura e dopo 3 mesi il licenziamento. Si tratta di una vicenda purtroppo non isolata e, anche per l’importanza più generale che ha per la libertà di espressione nel nostro Paese, come coordinamento delle ANPI della Sardegna il 21 gennaio scorso abbiamo pubblicato un comunicato di solidarietà al giornalista e di disapprovazione per la direzione della rivista (v. fig. 5). Il duro provvedimento ha preso le mosse non da qualcuno degli 800 articoli scritti per la rivista, ma da un giudizio che Matteo Meloni ha espresso sulla sua bacheca Facebook. Giudizio che riguardava il premier israeliano Benjamin Netanyahu che il giornalista sperava venisse processato per i crimini che stava commettendo nei confronti dei palestinesi a Gaza. Evidentemente le malefatte di un potente, pur ampiamente documentate e sotto indagine della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, non le puoi denunciare neanche nel tuo tempo libero in un social network accessibile solo ai tuoi amici o al massimo agli amici dei tuoi amici. Sei costantemente sotto osservazione e se dici cose scomode per il potere puoi perdere il lavoro come è avvenuto in questo caso a seguito di una lamentela pervenuta alla rivista attraverso il Ministero degli Esteri. Di fronte a questi fatti il pensiero va al capolavoro di Orwell che, almeno per l’Italia, forse aveva solo sbagliato di 40 anni la data.
Antonello Murgia
Coordinatore regionale ANPI Sardegna