Pestaggi e violenze nel carcere minorile Beccaria di Milano (di Federico Palomba)

Sarebbe disdicevole se sulla notizia del pestaggio e delle torture ai ragazzi ospiti del carcere minorile Beccaria di Milano scemasse l’attenzione dopo i commenti del momento, generalmente incentrati solo sull’aspetto culturale. Perché, sarà per la giusta importanza attribuita alle celebrazioni del 25 aprile: ma quella questione sembra uscita dai radar.

Io, in particolare, credo di avere il dovere morale di condividere le mie riflessioni sulla vicenda avendo conoscenza diretta dei problemi. Essa suscita in me un doppio sentimento. Uno è di umana partecipazione al dolore ed al terrore provato dai ragazzi presenti nel carcere minorile. Sono persone in affidamento all’autorità pubblica perché da questa coattivamente tolti alla vita libera per essere confinati in una struttura chiusa, dove tutta la vita è scandita da regolamenti e dove trova poco spazio il bisogno di riservatezza. E laddove tutto è palese e controllato, con pochissimi spazi di libertà, già la sofferenza è molta. A ciò si aggiunge la delusione per la constatazione che il potere pubblico, che dovrebbe tutelarli, in realtà è la loro fonte di paura e di patimento. E la condotta prevaricante rafforza in loro l’idea che la violenza sia l’unica legge che realmente vige. In ragazzi che sovente sono incarcerati per trasgressioni legate alla violenza, diretta o psicologica, ciò suscita sentimenti di avversione verso la collettività e di conferma nel ruolo deviante.

Ciò è tutto il contrario degli obiettivi che la normativa vigente nel campo penale per i minori intende perseguire, inclusa la tendenza alla destigmatizzazione che anche la carcerazione dei ragazzi è chiamata a realizzare. Il processo minorile vuole favorire la consapevolezza del valore delle regole da parte del ragazzo per aiutarlo ad uscire dal circuito penale con suo merito, frutto della responsabilizzazione. Peraltro, dopo molti anni di applicazione dell’ordinamento penitenziario dei maggiorenni alle persone di età minore, non da molto, nell’ambito della riforma del ministero della giustizia voluto dal ministro Orlando, ne è stato approvato uno specifico per i minori col Decreto legislativo 2 ottobre 2018, n.121 “Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni”. I principi informatori sono: tendere alla responsabilizzazione, all‘educazione ed al pieno sviluppo psico-fisico del minorenne per prepararlo adeguatamente alla vita libera attraverso percorsi di inclusione sociale; tendere a prevenire la commissione di ulteriori reati, potenziando percorsi di istruzione e formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, da coniugarsi con attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero; favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato. Ognuno vede quale distanza abissale intercorra tra l’inaccettabile prassi vigente nel Beccaria e la cultura sottostante agli intendimenti del nostro Stato circa la reazione sociale, aggregante e non violenta, rispetto ai giovani reclusi.

Già, la cultura. Ma la cultura senza struttura è insufficiente. Cioè, i principi senza l’organizzazione rimangono vuote declamazioni. E questa delusione è il secondo mio, questa volta personale, sentimento dinanzi agli eventi di cui stiamo parlando. Da direttore dell’ufficio per i minori del Ministero della giustizia diedi vita a ciò che poi divenne il dipartimento per la giustizia minorile, che veniva reso autonomo dall’organizzazione penitenziaria per adulti mediante un proprio organico (direttori, educatori, assistenti sociali, dirigenti e personale delle strutture periferiche). Per il personale penitenziario, invece, non si riuscì a creare un organico staccato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; ciò anche perché, grazie alla sensibilità di ministri come Vassalli e Conso, ci fu la garanzia che quello destinato agli istituti penali per minorenni sarebbe stato comunque selezionato in base ai requisiti e alla sensibilità personale che li rendevano idonei ad occuparsi di soggetti di età minore. Furono organizzati corsi di formazione; e per un certo periodo gli agenti furono seguiti ed accompagnati anche durante il servizio. Anche i direttori ed il personale degli istituti penali per minorenni vennero selezionati in base a specifici requisiti.

Erano periodi di fervore, nei quali la gran parte dell’opinione pubblica e del mondo accademico, intellettuale ed istituzionale seguiva e sosteneva la nuova cultura dell’atteggiamento nei confronti dei minori, non di acritico perdonismo, ma di responsabilizzazione, con il carcere come “ultima ratio”. Poi, man mano quella cultura si è venuta affievolendo, e con questo anche l’organizzazione relativa: dai direttori alla polizia penitenziaria si sono ridotte la specializzazione e la formazione, e con ciò la motivazione ad occuparsi dei ragazzi.

Un tempo il Beccaria di Milano, il Casal del Marmo di Roma, il Nisida a Napoli, per citarne solo alcuni, erano un fiore all’occhiello e dall’estero venivano responsabili di molti Paesi a conoscerne il funzionamento. Ora non è più così. Questo fatto dispiace non tanto e non solo per la perdita di immagine, ma soprattutto per i destini dei giovani occupanti, colpevoli solo di avere sbagliato i tempi della loro reclusione. C’è il timore che si consolidi l’offuscamento di quella cultura minorile e che ciò possa in generale favorire certe pulsioni che, dinanzi a fenomeni poco conosciuti prima con le attuali dimensioni quali (baby gang, bullismo, eccetera), vorrebbero reazioni più forti e punitive, inclusi l’abbassamento dell’età dell’imputabilità e l’eliminazione di benefici applicabili solo ai minori. Invece che studiare a fondo le radici sociali del disagio giovanile, a cominciare dalla responsabilità genitoriale, si vorrebbe reagire con la punizione: scelta più facile e comoda, ma non certo più produttiva. Le reazioni solo punitive di solito aggravano, e non risolvono, i problemi. Molto meglio creare le condizioni perché i giovani possano vivere una vita piena di valori e non condizionata da false rappresentazioni.

C’è ancora un fortino di operatori che si impegna per presidiare quella cultura minorile. Esso genera tuttora esperienze molto incoraggianti. Bisogna evitare che esso crolli. Invece che limitarsi alla punizione del personale coinvolto, l’Autorità responsabile dovrebbe da qui ripartire per rilanciare quella cultura e far seguire una riorganizzazione che riporti alla specializzazione e alla formazione; impedendo, così, che il buio si impadronisca dei nostri ragazzi, e forse anche di noi tutti.

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    Claudia — 12/05/2024 at 12:24

    Il Dott. Palomba ci ha regalato una fotografia nitida dell’attuale realtà dei servizi. Tutto ciò che ha contribuito a costruire, con costante attenzione alla complessità e multidimensionalità dei fenomeni sociali, viene quotidianamente messo a rischio da idee ed approcci che hanno come unica linea guida l’utilizzo della forza. La sua conoscenza dell’ambito di cui scrive è così profonda, da fargli anche vedere il “fortino di operatori che si impegna a presidiare quella cultura minorile”, resiliente e resistente, che oggi ha un enorme bisogno del sostegno che può arrivare da chi, come lui, ha fondato e diffuso la cultura minorile che ha guidato i servizi per 40 anni. Grazie

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