Appunti dal sottosuolo

Mauro Tuzzolino  – Scuola di Cultura Politica “Francesco Cocco” – Cagliari

Come molti dei personaggi di Murakami Haruki, siamo condotti dalle circostanze a ripiegare nelle nostre solitudini, a discendere nel pozzo della nostra autocoscienza. E come nelle narrazioni di Saramago questa discesa assume una dimensione sociale e collettiva.

E, si sa, il pozzo è metafora di caduta e di rinascita già nelle Sacre Scritture. Il virus ha costretto tutti noi a questa discesa nel pozzo, sul piano individuale e su quello sociale. Ponendoci interrogativi sul nostro recente passato, sulle nostre modalità di condurre l’esistenza, sugli eventuali nessi causali tra modus vivendi e situazione attuale; ma gli interrogativi riguardano a maggior ragione la risalita prossima, anche come esercizio e antidoto al presente, assecondando quel fisiologico bisogno di varcare il confine del nostro attuale limite.

“La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità”, ricorda papa Francesco nella sua recente commovente omelia.

Al culmine della potenza della retorica della tecnica, ne riscopriamo la sua intrinseca fragilità. Quando l’apparato di scienza, tecnologia, economia mostra i propri limiti dinanzi al palesarsi del flusso virale, ci sentiamo nudi, messi di fronte allo specchio della nostra vita, impauriti per la sopravvivenza nostra, dei nostri cari e, in ultima analisi, delle abitudini di esistenza a noi così care. Privi dell’armatura e dei superpoteri che nella quotidianità ci offre l’apparato tecno – sociale, ripiombiamo d’improvviso nel perimetro delle nostre corporeità e torniamo a fare i conti con le domande di sempre.

Domande individuali e collettive sul senso, sulle traiettorie di vita, sul ruolo di ciascuno e sulla direzione del nostro vivere associato.

In questo quadro avvio la mia breve riflessione, sempre in divenire, su alcune piccole lezioni che sto imparando.

Stiamo riscoprendo l’importanza della comunità di cura. La consapevolezza delle nostre fragilità incrementa il nostro bisogno di avere intorno reti di protezione, che non devono e possono limitarsi alla pur necessaria concentrazione di funzioni di eccellenza. Le riforme sociosanitarie assecondando il principio fordista per cui concentrazione uguale efficacia/efficienza, hanno puntato sulla costruzione di grandi hub iperspecializzati (come non pensare alla vicenda del Mater Olbia in Sardegna?) e, così facendo, abbiamo abbandonato, almeno nel dibattito mainstream, le ipotesi di una sanità capillare e territoriale, capace di offrire prossimità, aiuto, sostegno, ascolto. E le nostre paure diventano solitudini fragili, prive di quel meccanismo comunitario di sostegno e accompagnamento, in particolare nel contesto delle aree interne.

La scuola giocoforza, con la generosità dei suoi protagonisti, prova a riorganizzare il proprio funzionamento attraverso l’utilizzo della didattica a distanza; quel che emerge tuttavia, aldilà delle performance molto variabili e della inadeguatezza tecnologica, è la centralità della “presenza” nei processi di apprendimento e di costruzione della socialità di base. Ho ascoltato docenti e ragazzi. Questi ultimi si sentono smarriti e rivalutano con convinzione l’importanza dello spazio fisico, del confronto sensoriale come ambiente didattico per eccellenza. E anche qui varrebbe la pena di approfondire sul principio di prossimità, sull’importanza di un presidio sociale insostituibile. La scuola, sembra banale rammentarlo, non è semplicemente un contesto di trasferimento e di condivisione dei saperi; in questo caso la ricchezza di risorse conoscitive disponibili nel web renderebbe del tutto superflua la presenza di un’istituzione come la scuola. Scambio, confronto orizzontale, mediazione dei saperi, educazione alla convivenza e alla tolleranza, incontro di differenze, conflitto entro uno spazio normato, costituiscono valori e principi base di un’istituzione educativa. La drammatica sospensione delle attività scolastiche deve interrogarci su tali questioni; non per riproporre modelli ormai superati dalla realtà, ma per ripensare funzioni, spazi, metodologie, organizzazione. La scuola italiana è una grande risorsa del presente e del prossimo futuro, e tutta la comunità educante deve avere il coraggio di ripensare profondamente sé stessa, approfittando anche dei segnali di riscoperta positiva che il contesto sta producendo.

Sui beni di prima necessità abbiamo cominciato ad interrogarci sulle filiere organizzative e produttive che rendono possibile il nostro approvvigionamento alimentare. Dalle grandi corporation dell’agroalimentare, ai piccoli produttori sino ai cosiddetti lavoratori dell’ultimo miglio (come li definisce il sociologo Aldo Bonomi), che ci consentono di avere la merce presso le nostre abitazioni. I miei amici pescatori artigianali stanno attraversando, come tanti, un momento drammatico di crisi produttiva soprattutto per l’assenza di infrastrutture logistiche di vicinato. Facciamo una grande retorica sul kilometro zero, valorizzandone correttamente sia l’aspetto della sostenibilità ambientale sia quello della salvaguardia delle nostre produzioni e dei nostri lavoratori. Tuttavia, se non si affrontano le questioni infrastrutturali, materiali ed immateriali, relative ai temi della logistica, della distribuzione e della connessione di territorio e città, continueremo pure la nostra retorica ma le nostre dispense saranno dotate più facilmente di salmone piuttosto che del sarago locale, sempre per rimanere in contesto ittico.

Questi giorni sono stati il terreno di sperimentazione su larga scala del cosiddetto smart working, che nel caso di specie non è altro che lavoro da casa. O meglio, l’allargamento alla platea dei dipendenti delle modalità del lavoro autonomo di seconda generazione, con la felice definizione di Sergio Bologna. Attenzione ai facili entusiasmi. Lo spazio di lavoro che entra prepotentemente nelle nostre vite private può configurarsi come una violazione, un vero straripamento, con il messaggio non troppo sottinteso che siamo soggetti perennemente al lavoro, sempre disponibili, reperibili, attivabili. Con l’aggravante che il lavoro si individualizza ulteriormente, alterandone la sua dimensione sociale e collettiva, sia sul versante dell’affermazione dei diritti sia su quello del lavoro come funzione di abilitazione sociale. Trovare forme ibride e creative può essere una felice soluzione, immaginando anche luoghi altri  di condivisione, informali e capaci rompere le  ritualità costrittive dei grigi uffici e l’arcaica stretta correlazione tempo-lavoro.

La vicenda del sommerso italiano, giustamente sollevata dal ministro Provenzano, ci pone dinanzi ad una delle grandi ipocrisie del nostro paese. “Così come abbiamo sempre sostenuto, l’Italia ha tre Pil: uno ufficiale, di circa 1.600 Mld di euro; uno sommerso, di circa 540 Mld (l’equivalente del 35% di quello ufficiale); uno criminale, che supera abbondantemente i 250 Mld”, ha rammentato in un recente articolo del Sole 24 Ore il presidente di Eurispes.

Conosco molto bene e dal di dentro la realtà sociale ed economica del mezzogiorno d’Italia. La mia prima preoccupazione, pensando alla mia città, Palermo, con il progressivo acuirsi della crisi da Covid, è stata rivolta alle migliaia di persone che praticano nella quotidianità l’arte di arrangiarsi. Il piccolo venditore che staziona all’angolo della strada, il parcheggiatore abusivo, il venditore di rose ai semafori, il cameriere e il muratore a giornata. E il pensiero non può che correre a tutti gli invisibili: che fine ha fatto il piccolo indiano che ogni mattina vende pacchi di fazzolettini sotto casa? Credo che anche questi interrogativi abbiano diritto di cittadinanza su quel che sarà il dibattito per la rinascita.

Non possiamo inoltre rimanere indifferenti di fronte alla meravigliosa potenza della Natura che, come da topos letterario distopico, riprende il proprio spazio: rimbalzano sui social video e foto con la fauna che prende possesso di luoghi urbanizzati, così come gli istituti di analisi ambientale ci forniscono dati circa la forte diminuzione di inquinamento delle acque, dell’atmosfera e, in generale, di tutti gli ecosistemi. Il rallentamento dell’attività antropica fuga ogni dubbio circa l’impatto delle attività umane sul nostro pianeta, aldilà di ogni sterile dibattito sulla figura della giovane Greta. Questi esiti possono lasciarci indifferenti circa le modalità di produzione del valore? O siamo ancora in tempo per fondare un’economia green alla ricerca tendenziale di un benessere sociale diffuso e reale?

Dovremmo avere la capacità di allargare il nostro sguardo al paradigma dello sviluppo economico, o meglio sarebbe dire del progresso economico. Questo è il tempo, come già fu in occasione della crisi del 2008, in cui si evocano salti di paradigma, certamente necessari su cui da domani concentreremo sforzi e approfondimento. Ma si tratta al contempo di essere realisti; e provare intanto a ribaltare le logiche prevalenti di tipo concentrazionario, spesso funzionali anche ad un esercizio del potere. Centralizzazione vs. territorializzazione. Vale per i ragionamenti di cura, deve valere per orientare le nostre scelte in campo economico, energetico e burocratico. Città intelligenti, certo, insieme a territori intelligenti. Tecnologia come strumento per aumentare e non per sostituire.

Emergono, come in ogni crisi aspetti molteplici, variegati e, spesso, contraddittori. E se da un lato stiamo riscoprendo il valore della prossimità, della solidarietà e della sensorialità nelle nostre relazioni, si insinua altresì, quasi come processo inevitabile, lo spettro di una società funzionalmente immunizzata, che può sacrificare la contaminazione, lo scambio e la reciprocità in nome della ricerca di una performatività rassicurante e apparentemente priva di rischi.

Stiamo insomma, in questo snodo epocale, contemplando l’antico dorso di Apollo, senza volto e senza gambe, che ci avverte con il preciso monito “Devi mutare la tua vita!”: la direzione da imprimere a tale necessario cambiamento dovrà essere, già nelle nostre azioni, solidale ed ecologica.

RIFLESSIONI SULLA PANDEMIA dalla Comunità La Collina
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