Centri migranti in Tunisia in cambio di soldi? Soluzione inaccettabile (di Tonino Dessì)

Centri migranti in Tunisia in cambio di soldi? Soluzione inaccettabile”.
Non è una posizione “etica”, quella di Saied, ma una considerazione realistica, che mette in luce la velleitarietà dell’accordo intereuropeo della settimana scorsa e della proposta fatta alla Tunisia da Meloni, Rutte e Von Der Leyen.
La Tunisia non è assolutamente nelle condizioni di diventare il campo di concentramento dei profughi africani per conto dell’Europa.
Il piccolo Paese arabo mediterraneo, già in preda a un’ondata xenofoba quando non apertamente razzista, cavalcata politicamente dal suo attuale autocrate, esploderebbe.
Può essere che un accordo grosso modo lo si troverà, in una mediazione nella quale il metodo levantino sarà comune, perché le risorse UE e le relative condizioni di accettazione costituiscono il lasciapassare verso il più corposo intervento del FMI al fine di evitare la rovina completa della Tunisia.
Ma è verosimile che la Tunisia farà più o meno, in pratica, quello che una parte dei Paesi europei accusa l’Italia di fare essa stessa, cioè lasciar filtrare verso le destinazioni esterne quote importanti di migranti in transito.
La vicenda mette in luce diverse questioni.
La prima riguarda la provenienza dell’ondata di profughi.
È un’ondata nera, sub sahariana, originata nella fascia equatoriale del Continente.
Si tratta dell’epicentro dell’attuale condizione africana, quello in cui più diretti sono gli effetti dell’accelerazione neocoloniale contemporanea, nella quale agli interessi economici del capitalismo occidentale si sono aggiunti quelli del capitale di Stato cinese e agli interessi militari di Occidente e Cina si sono aggiunti quelli militari russi, diretti o per interposto Gruppo Wagner.
All’instabilità delle economie di questi Paesi africani, alla fragilità delle loro società, alla corruzione dei rispettivi governi, alle interferenze politiche e finanziarie straniere, alla rapina delle loro risorse, alle guerre civili e tra Stati, ai conflitti religiosi, alla crisi alimentare provocata dalla guerra russa contro l’Ucraina, si stanno aggiungendo gli effetti conclamati della crisi climatica planetaria.
È questo, che sta provocando un’ondata migratoria epocale praticamente tutta diretta verso l’Europa, perché non assorbibile decentemente dai Paesi arabi nordafricani, tutti, sia quelli petroliferi sia quelli non petroliferi, entrati da almeno vent’anni in una irrisolta crisi politica e di ruolo sia a livello africano sia a livello internazionale.
L’Europa non può continuare a pensare di cavarsela con qualche pacco di soldi in cambio della guardiania delle sue frontiere esterne.
Mai come oggi il Vecchio Continente si trova a fare i conti col suo passato, col suo presente e soprattutto col suo futuro.
Mai come oggi il termine “vecchio” rischia di attagliarsi a una condizione esistenziale.
In piena crisi demografica, l’Europa rifiuta una delle possibili vie di soluzione: la gestione dell’immigrazione.
Cosa che ha persino dell’inattuale, se si pensa che proprio nelle scorse settimane l’Amministrazione Biden non ha rinnovato il blocco imposto precedentemente da Trump e che conseguentemente, per quanto in forma caotica e non senza conseguenze sullo scontro politico interno, un flusso di immigrati centroamericani e sudamericani sta nuovamente entrando negli States, che abbisognano tanto di forza lavoro, quanto di non esaurire la propria dimensione demografica.
La ”vecchiezza” europea si riflette anche sull’incapacità di fare i conti col passato coloniale, di far tesoro di errori plurisecolari, di comprendere che per non restare schiacciata nel conflitto Occidente-Oriente, l’Europa, la UE, deve giocare la chance della direzione Sud, cioè inevitabilmente dell’Africa.
Alla quale dovrebbe offrire -altro che “Piano Mattei”!- condizioni di partnership convenienti alternative a quelle di altre potenze, statali o multinazionali private e di Stato, espandendole in profondità, oltre la fascia dei Paesi sahariani.
Solo alle condizioni di una scommessa lungimirante di questo tenore l’Europa può sperare insieme sia di gestire i flussi migratori in forma civile sia di equilibrare la propria economia interna, sia recuperare un ruolo nelle dinamiche globali che si vorrebbero non solo multipolari e competitive, ma anche proiettate su un futuro economico, sociale, ambientale sostenibile.
In difetto, resta davvero l’impressione di un certo meschino squallore, per di più destinato al fallimento.

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