Immagine del mito di Prometeo

Perché i doni di Prometeo, dalla scrittura alle scienze, non sono più accettati?

Perché i doni di Prometeo, dalla scrittura alle scienze, non sono più accettati?

 

 

Di Roberto Paracchini

 

Uno sguardo da lontano. Chissà che cosa dicono? Forse si mettono le mani nei capelli, ammesso che le abbiano le mani e in testa i capelli. O forse si chiedono perchè non ascoltiamo più i nostri miti più antichi, come Prometeo che ci donò dai numeri al fuoco? E magari dicono che siamo in una nuvola di confusione, oppure che siamo un po’ picchiatelli. Di certo quegli alieni di cui stiamo parlando, ci troverebbero strani e molto poco coerenti se avessero con noi un rapporto ravvicinato. La Terra del Covid-19 li lascerebbe più che perplessi. Il nostro pianeta e i suoi abitanti, li hanno studiati in lungo e in largo, seppure da lontano; ma molte cose non riescono ancora a capirle. Non che pretendano di dare un senso a tutto, sono troppo intelligenti per pensarlo, ma quello che li spiazza di più è che sono riusciti a decifrare la nostra “Dichiarazione universale dei diritti umani”, e non vi trovano corrispondenza con le nostre azioni. Per tipo di formazione loro sono restii a pensare che si possa dividere tutto tra buoni e cattivi. Eppure quando coi loro strumenti potentissimi scrutano gli slogan di alcune manifestazioni, tipo “Green pass, nazi pass”, “Il vaccino uccide”, “Tutto nasce da un grande complotto”, confessano di restare stupiti. Non capiscono perché un buon numero di coloro che sono contro i vaccini e il green pass abbia anche usato parole riferite a comportamenti “nazisti” per stigmatizzare alcune scelte fatte dai vari governi, anche in Italia. Ugualmente non comprendono come mai in molti utilizzino il termine “resistenza”, in riferimento alla resistenza partigiana per descrivere le manifestazioni di protesta. Ed è così che gli alieni si grattano pensierosi il capo, ammesso che ce l’abbiano una testa. I loro studiosi, posto che hanno capito che i vaccini sono una delle scoperte sanitarie più importanti degli ultimi due secoli e che hanno salvato centinaia di milioni di vite (dal vaiolo, dalla peste, dalla polio, dal morbillo ecc.), pensano che chi rifiuta i vaccini non siano solo persone in mala fede, scriteriate, disinformate o stupide. Racchiudere tutto in quei quattro predicati la considerano una spiegazione troppo facile e che non risolve il problema; pensano invece che molti degli scettici irriducibili siano anche spaventati per qualcosa che non capiscono e che non gli è stato spiegato sufficientemente bene. Loro, questi osservatori provenienti da un‘altra galassia, ipotizzano quindi che le cose siano più complesse. E chi scrive ha seguito il loro suggerimento: provare a entrare in questa complessità.

 “L’ho provato io”. Preoccupa, in primo luogo, che una fetta importante di opinione pubblica abbia abbracciato non tanto il “dubbio metodico”, quanto un forte scetticismo verso le scienze e i loro risultati storici. Comportamenti che accentuano la diffidenza acritica verso la mediazione delle competenze in nome di un empirismo soggettivo (“l’ho provato io”, “me l’han detto” ecc.) privo di qualsiasi valore di generalizzazione. In questo quadro, però, fermarsi a una politica di restrizioni, pur utili, lascia un’importante fetta di persone in balia di nebulose di pensieri ben poco logicamente organizzati, quindi fertile terreno di demagoghi vecchi e nuovi.  Non va infatti dimenticato, come sottolinea Artur Caplan della NYU School of Medicine, “che la salute pubblica in generale e la vaccinazione in particolare riguardano tanto la politica, i valori e la fiducia pubblica, quando la scienza e i fatti”. Il che significa che il rapporto tra governanti e governati va messo in primo piano e che le restrizioni autoritarie possono avere un valore tattico e temporaneo (emergenziale) e non certo strategico, pena il fallimento a medio termine di qualsiasi politica sanitaria. Il che implica: nel qui ed ora mettere in atto un ampio spettro informativo che tenga presente che il problema-vaccini è anche un’importante questione di valori e di fiducia, da un lato; e, dall’altro, attivare interventi a lungo termine in favore di una cultura e un senso comune non restii allo spirito scientifico.

 I fascistoidi. In queste poche righe non ci interessa riprendere il discorso sulle manifestazioni fasciste di Ordine nuovo e di altre analoghe in Europa (che si commentano da sole). Poche parole, invece, per gli eventi fascistoidi alimentati da una destra italiana per lo più priva di una cultura minimamente articolata. Quadro desolante, quest’ultimo, che ha spesso condotto a parole d’ordine pericolosamente demagogiche, tipo “prima gli italiani”, “no all’invasione degli immigrati”, “creiamo blocchi navali” ecc.; che, pur prive di qualsiasi riscontro fattuale, han creato tantissimi danni. Il tutto condito da un comportamento ondivago e opportunista, come quello usato per i vaccini e i green pass.

  Il contesto. L’elemento su cui vorrei soffermarmi maggiormente è, piuttosto, il contesto all’interno del quale le parole d’ordine di rifiuto accennate e i conseguenti comportamenti si stanno sviluppando. Certamente vi sono state e in parte vi sono ancora delle grossissime responsabilità di chi ha gestito la comunicazione sul Covid-19: titubanze, contraddizioni e incertezze prive di spiegazioni che non han fatto altro che incrementare la confusione, anche perché prive di qualsiasi considerazione su come si articola il progredire scientifico, che è un processo e non la sommatoria di risultati settoriali, quasi sempre destinati ad essere superati. Mentre la comunicazione è stata ridotta e, in parte, lo è tutt’ora, a uno snocciolamento di dati forniti senza spiegazioni adeguate e non calibrati all’evoluzione della pandemia e delle vaccinazioni: oggi, ad esempio, sarebbe interessante sapere, nei dati quotidiani forniti dal governo, quanti dei nuovi contagiati sono vaccinati e quanti no, e soprattutto quanti di coloro che finiscono in ospedale, in terapia intensiva, o non ce la fanno, sono vaccinari e quanti no. 

   In questo contesto la confusione aumenta e viene incrementata anche da: 1) un senso comune per niente intessuto da una cultura scientifica, 2) diverse ambiguità – soprattutto iniziali – da parte di vari scienziati, 3) il ruolo dei media e dei social media in particolare, e delle scelte di chi li gestisce (Facebook, Twitter e Youtube, solo per citarne alcuni) e 4) un liberismo sfrenato che ha contribuito a far nascere un pericoloso senso di solitudine.

  La cultura negata. “La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale”, ha affermato il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi nella sua recente lectio magistralis all’università La Sapienza di Roma per l’inaugurazione del nuovo anno accademico. Ed ecco il problema o, almeno, uno dei principali: alle scienze si dà uno scarso, per non dire scarsissimo, valore culturale; per lo più le si considera pratiche in rapporto alle possibili applicazioni tecniche.

 In generale possiamo dire che la nostra cultura è ancora fortemente influenzata dall’idealismo di Benedetto Croce (1866-1952) che relega le scienze naturali e fisico-matematiche in una funzione esclusivamente pratica, negando a queste una funzione realmente conoscitiva, incapace di contribuire a elaborare una sintesi del reale e di costruire una visione complessiva del mondo. La scuola, ad esempio, al netto delle numerose e lodevoli sperimentazioni fatte da molti istituti e l’importante impegno di moltissimi docenti, è ancora interna a questo indirizzo culturale.

 La riforma di Gentile. La riforma della scuola di Giovanni Gentile (1875-1944) rappresenta tutt’ora l’unico intervento organico che sia stato fatto in Italia nell’ultimo secolo.  Realizzata durante il primo governo Mussolini nel 1922-24, questa riforma fu sostanzialmente approvata anche da Croce che l’aveva fortemente supportata e influenzata soprattutto nella considerazione negativa delle scienze, a cui, appunto, non viene dato un compito formativo-culturale. Sin dai primi del Novecento, Croce e Gentile rifletterono molto su come riformare la scuola italiana. E va detto che per quel periodo la riforma citata rappresentò un momento di importante cambiamento in rapporto a quella molto più elitaria e pre-moderna di Gabrio Casati (1798-1873) del 1859-60. La riforma Gentile contribuì innegabilmente a una maggiore alfabetizzazione attraverso un modello innovativo di scuola elementare e pose la classe docente al centro del protagonismo sottolineandone la libertà di insegnamento all’interno di un “diritto e dovere di realizzare, attraverso l’educazione pubblica, un principio statuale auto evidente e assoluto”. 

 Benedetto Croce. Benedetto Croce fu uno dei maggiori filosofi italiani della prima metà del secolo scorso, ma a parere di chi scrive il suo pensiero condizionò in negativo sia lo sviluppo culturale che, di conseguenza, quello economico del nostro Paese, dominato sino a pochi decenni fa dalle grandi famiglie imprenditoriali. Ma non è questa la sede per approfondire il discorso. Qui interessa evidenziare come l’egemonia delle posizioni crociane abbia avuto un ruolo importante, assieme a tanti altri fattori storico-sociali (come la riforma Gentile citata e il nazionalismo fascista) nella stagnazione del nostro senso comune in un’area fondamentalmente pre-galileiana: impermiabile allo spirito scientifico di Galileo, col risultato di un modus cogitandi e operandi privo di capacità osservativa-sperimentale, di generalizzazione e di ideazione progettuale. 

 Il paradigma delle scienze. Croce arrivò alle considerazioni su esposte riflettendo su una serie di teorizzazioni legate alle scienze naturali e fisico-matematiche, fortemente influenzate, però, da un paradigma positivista-fideistico (dogmatico) delle stesse. Ma già dalla fine dell’Ottocento e i primi del Novecento con la crisi-rivoluzione dei fondamenti della matematica e i rivolgimenti nella fisica (dalla teoria della relatività alla fisica quantistica) il paradigma delle scienze stava profondamente mutando e allontanandosi da quell’idea positivista citata. Ma come mai Croce ebbe una capacità egemonica così forte nella cultura italiana? Oltre ai motivi storici su esposti e alla raffinatezza del suo pensiero, giocò a suo favore anche l’essere un importante organizzatore culturale come dimostrato ad esempio dal suo stretto rapporto con l’editore Laterza e dal ruolo che ebbe la sua rivista La critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia. Un quadro che agevolò il suo “primeggiare” nella cultura italiana, rafforzato anche dalla sua vittoria sul matematico e filosofo Federico Enriques (1871-1946).

 Federico Enriques. Personaggio internazionale di primo piano negli studi di geometria, Enriques nel 1906 fondò la Società filosofica italiana e nel 1911, in occasione del quarto convegno internazionale di filosofia, da lui organizzato e presieduto, venne duramente attaccato da Gentile e Croce. I due filosofi erano evidentemente preoccupati dall’irruzione nella scena filosofica di questo “matematico che si diletta di filosofia” come spregiativamente affermò Croce, che aveva l’autorevolezza per coinvolgere i maggiori scienziati dell’epoca e che, soprattutto, puntava alla riforma dell’istruzione superiore, ma attraverso una visione unitaria delle varie discipline del sapere.

 In questa disputa Croce, che vedeva negativamente l’entrata delle scienze nel dibattito filosofico, ebbe la meglio e la sua vittoria produsse una pesante battuta d’arresto nell’apporto culturale che avrebbe potuto recare la riflessione scientifica che, tra l’altro, in Italia vantava scuole di altissimo livello, che da Enriques arrivavano sino al fisico Enrico Fermi (1901-1954).

 La solitudine. Pur sottolineando che l’onda lunga di quella sconfitta si sente in Italia ancora oggi in quanto ha creato un humus culturale che amplifica le contraddizioni che stiamo vivendo, questa eredità negativa non basterebbe a spiegare l’indifferenza, per non dire l’astio, verso le competenze e la mediazione degli specialisti. Comportamento che è diventato ancora più evidente e acuto a causa della situazione prodotta dal Covid-19, soprattutto per le limitazioni prodotte sulla vita quotidiana. Queste ultime hanno accentuato un pericoloso senso di solitudine che ha radici lontane. Schematizzando possiamo dire che il neoliberismo di questi ultimi trent’anni e la perdita di valore del lavoro, nonchè la caduta verticale di questi ultimissimi tempi non tanto e non solo del posto fisso ma della socialità legata al lavoro ha creato e sta determinando danni sociali e politici molto pericolosi. Un quadro che, già prima della pandemia, stava insinuando un senso di solitudine profonda in grado di intaccare non solo la psicologia soggettiva degli individui, ma il senso della tenuta sociale, alla cui base c’è una sorta di implicito contratto di solidarietà tra tutti i partecipanti (in Italia normato dall’articolo 2 della Costituzione). Senso di solidarietà e spirito di condivisione di cui sia le neuroscienze, che l’archeologia stanno dimostrando l’importanza.  Il dilagare dei discorsi sui muri e la chiusura delle frontiere agli immigrati, e il Mediterraneo diventato un cimitero silenzioso nell’apatia quasi generalizzata, sono un’evidente testimonianza dei danni tremendi alla solidarietà prodotti dall’insinuarsi di questo senso di acuta solitudine.

 La gig economy. Negli ultimi anni il lavoro in solitudine è stato poi particolarmente evidenziato da una forma di prestazione in ascesa, la gig economy, il lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo, che costringe spesso a sommare molti micro lavori per raggiungere un guadagno accettabile, di cui i rider, i ciclo fattorini che eseguono consegne a domicilio, ne sono l’esempio più evidente. Secondo i dati riportati dall’economista Noreena Hertz nel bel libro Il secolo della solitudine, entro il 2027 un americano su tre vivrà grazie a un lavoro occasionale recuperato tramite piattaforme on line. Se si riflette un attimo sul fatto che le donne e gli uomini sono animali sociali e culturali; e che il salto cognitivo dei sapiens è avvenuto soprattutto grazie all’avvento delle prime forme di condivisione come sottolineato da autorevoli studiosi come Colin Renfrew (vedasi Preistoria. L’alba della mente umana), si può iniziare ad avere un’idea dei danni che questo emergere della solitudine come dimensione di vita, sta causando: inaridimento dei luoghi del dialogo e del confronto prodotti dal rapporto interpersonale, di cui in passato il lavoro è stato uno dei principali motori.

 Il populismo in agguato. Questo tipo di solitudine sta dando luogo a estraniamento e alienazione, su cui storicamente hanno giocato soprattutto le destre sino alle forme più aggressive di dominio politico (come lucidamente sottolineato dalla filosofa Hanna Harent in La nascita del totalitarismo, che individua nella Germania nazista e nell’URSS staliniana i veri regimi totalitari). Ma senza arrivare a questi estremi, va detto che nell’epoca del web, spesso l’isolamento sociale si autoalimenta producendo sfiducia e ulteriore isolamento. Si crea così un terreno sempre più fertile per le destre populiste e per i movimenti privi di qualsiasi visione del mondo in grado di avere riscontri fattuali volti a un progredire dell’umanità.

 Il crollo dell’intermediazione. Movimenti, questi ultimi, all’interno dei quali possono convergere istanze e modi di essere molto differenti, dai terrapiattisti (in Italia, secondo un’indagine dell’Eurispes, sono circa il 6 per cento) a molte persone deluse dalla politica e dalle grandi agenzie di intermediazione. Tutti o quasi sono però accomunati dall’aver trovato o ritrovato nel web un modo per affermare la propria individualità.

 Indubbiamente la casta (dal titolo del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella) è stata  correttamente stigmatizzata per i suoi privilegi, spesso indecorosi e che hanno riguardato una  parte consistente di classe dirigente del nostro Paese. Critiche che hanno portato a un vasto (e spesso giustificato) scetticismo verso l’operare delle varie agenzie di potere. Da qui l’esigenza di trovare fonti e forme alternative di informazione che, nella maggior parte dei casi, hanno individuato nel web il luogo più adatto a soddisfare queste esigenze. Per molti è stato un modo per riacquistare la parola e uscire dal proprio isolamento tramite i rapporti con altri tipi di comunità, quelle del web, appunto. Un fatto rilevante e per molti un importante arricchimento culturale; per altri, invece, un ulteriore motore di scetticismo spesso acritico, sino al rifiuto totale dei momenti di intermediazione degli esperti, che di queste intermediazioni sono i principali protagonisti.

 I big data. Le questioni sono complesse: il web e il mondo di internet ha certamente contribuito e contribuisce alla diffusione delle conoscenze (si pensi a Wikipedia e ai numerosissimi gruppi di approfondimento) e rappresenta oggi una realtà determinante per la nostra vita, di cui non si può più fare a meno. Nello stesso tempo, però, gli ultimi decenni hanno portato allo sviluppo abnorme di alcune grandi corporation (da Facebook ad Apple, da Amazon a Google, solo per nominare i più grandi) che grazie anche a una mancata regolamentazione internazionale, sono entrati in maniera invasiva in tutte le pieghe delle nostre vite, come chiaramente evidenziato dalla psicologa del sociale Shoshana Zuboff nel suo illuminante libro Il capitalismo della sorveglianza.

 Tramite il nostro vivere nel web tutti noi lasciamo migliaia di tracce (da una telefonata, a un messaggio, da un link alla ricerca di un libro, dalla ricerca di un indirizzo di un market bio fatto a una determinata ora a quello di una farmacia ecc. ecc.), che sono poi  trasformati in segnali che stanno alla base dei così detti big data: un insieme di indicazioni, apparentemente neutre che, tramite sofisticati algoritmi che le intersecano tra loro, sono in grado di fornire a chi li raccoglie (le grandi corporation) immagini molto dettagliate su quello che noi stessi siamo: le nostre abitudini, i gusti, le debolezze, i punti di forza, le gioie, le attitudini, sino a creare dei profili molto più precisi e completi di quel che si possa minimamente immaginare. Detta in poche parole: siamo totalmente trasparenti, ma a nostro discapito.

 Il gradimento. Ma perché a nostro discapito? Che valore ha conoscere i nostri profili? Serve a fare profitti, molti profitti. Il meccanismo è semplice e ruota intorno alla parola gradimento: se noi gradiamo una notizia o un messaggio siamo più propensi ad acquistare qualcosa, soprattutto se questo qualcosa ha qualche affinità col tipo di messaggio ricevuto e a noi gradito. Facciamo un esempio:  se cerchiamo qualcosa sui vaccini anti Covid e nelle nostre passate escursioni nel web abbiamo mostrato un certo scetticismo verso questo tipo di intervento sanitario, a seguito di una ricerca da noi fatta ci potrebbe arrivare la notizia di una persona di 84 anni morta di Covid-19 ma in precedenza vaccinata; magari, però, omettendo o relegando in secondo piano il fatto che quella persona (nel caso specifico si tratta di Colin Powell, già segretario di Stato degli Usa col presidente George Bush) era malata da anni di una forma molto aggressiva di tumore alle ossa e che, quindi, aveva un fisico già fortemente debilitato. A fianco di questa notizia potremmo anche ricevere la pubblicità di un integratore alimentare “per rafforzare il sistema immunitario” che in chi la riceve, e visto che è un po’ scettico verso i vaccini, potrebbe voler implicitamente significare un aiuto per poter così ritardare o evitare il vaccino e, quindi, farne scattare l’acquisto.

 La bussola che guida le risposte alle nostre domande da parte delle grandi corporation (degli algoritmi da loro implementati) è guidata dal livello di gradimento che possiamo esprimere verso il messaggio che ci viene inviato. Il che significa che, nel campo delle notizie, quel che conta e che ci può essere trasmesso quando facciamo una ricerca non è quel che è più corrispondente alla realtà di un avvenimento di cronaca o di un rapporto su un argomento legato al progredire scientifico, ma quello che a noi è più gradito. Quest’ultimo può anche basarsi su credenze più o meno diffuse ma prive di qualsiasi riscontro fattuale purché, sulla base del nostro profilo, ci sia gradito.

 La postverità.  In questo quadro si colloca la cosiddetta postverità. Senza entrare nell’ampio dibattito su che cosa si intenda per “verità”, precisiamo che in genere si utilizza il termine postverità per indicare tutte quelle affermazioni che si basano su credenze diffuse, fatti soggettivi e fatti non verificati o non verificabili. Con le ricerche condotte in prima persona nel web le persone sono convinte di creare un rapporto diretto con i fatti e gli avvenimenti della vita evitando le agenzie di intermediazione. Al di là del giudizio sulle varie agenzie di intermediazione, per quanto affermato in precedenza, va sottolineato che le ricerche dirette (che non passano, quindi, attraverso le

agenzie di intermediazione consolidate, da giornali e riviste a strutture economiche e sindacati storici, università ecc.) non solo non sono produttrici di risposte indipendenti e funzionali soltanto alle nostre domande, ma subiscono nei risultati una intermediazione più subdola e nascosta. Infatti e in base al discorso fatto sino ad ora, queste risposte sono sempre collegabili alle nostre preferenze, ricavate dal nostro modo di vivere e vedere la vita, insomma da quello che sinteticamente abbiamo definito il nostro profilo. Quanto detto potrebbe lasciare perplessi ma basta una piccola prova: fare la stessa ricerca con un’altra persona, ad esempio su un treno: ognuno utilizzando il proprio computer o un login che ne individui l’identità: i risultati saranno diversi perché calibrati sulle differenti personalità dei due interlocutori. E questo perché – lo si ribadisca – l’esito delle ricerche è mirato su ognuno di noi, che tramite il nostro vissuto nel web, rappresentiamo la vera cassaforte dei profitti delle corporation.

  Le echo chamber. Questo significa che il nostro convincimento o ipotesi su un certo argomento finisce con l’autoalimentarsi con argomenti-risposte che lo supportano e che, soprattutto,  eliminano il confronto. Le posizioni, inoltre, diventano ancora più marcate quando si creano gruppi dedicati a specifici argomenti. In questi casi e nei momenti di maggiore conflittualità sociale, il gruppo tende a configurarsi come un qualcosa di chiuso (che vive su un assunto di base – una sorta di Bibbia – difficilmente scalfibile) con interscambi di messaggi tra i partecipanti che mirano, per lo più, a un’autoconferma rassicurante volta a garantire la persistenza e solidità del gruppo stesso. In tal modo il gruppo elabora le sue verità, rendendole sempre più granitiche. Un iter che conduce il gruppo a trasformarsi nelle così dette echo chamber (le camere dell’eco) in cui il dibattito interno si riduce a una sorta di effetto eco, di ripetizione delle tesi su cui è nato lo stesso gruppo. In pratica viene definitivamente bandito qualsiasi confronto con posizioni diverse. Le così dette tesi complottiste sulla pandemia, che asseriscono che questa sarebbe stata orchestrata da un gruppo di elite per controllare meglio il mondo, trovano nelle echo chamber il terreno ideale per consolidare le loro posizioni, come sottolineato dalla semiologa Anna Maria Lorusso (vedasi della stessa il libro Postverità).

 Un circolo non virtuoso. In base a quanto detto si evince che la le informazioni da noi ricercate sul web non vengono quasi mai calibrate in rapporto alla loro corrispondenza coi fatti o con gli eventi che li raggruppano, ma elaborate in funzione delle nostre preferenze soggettive. A questo si aggiunga anche il condizionamento di trent’anni di format televisivi (tipo il Grande fratello, ad esempio) che hanno teso e tendono a rendere la dimensione soggettiva delle persone “vera perché autentica”, sino a stimolare la generalizzazione delle proprie esperienze soggettive. Ciò che si è visto o che si è provato diventa in tal modo metro di giudizio estendibile a tutte le situazioni considerate analoghe.

Nel quadro sin qui delineato e tentandone una sintesi, si vede  come le cosiddette postverità siano il frutto finale di un concorso di diversi fattori: il permanere di un senso comune pre-scientifico e pre-galileiano; la perdita progressiva di valore del lavoro con conseguente angoscioso isolamento,  accentuato dagli ultimi avvenimenti legati al Covid-19; il dominio attuato dalle grandi corporation della comunicazione sui nostri dati personali, da loro incorporati e spregiudicatamente utilizzati per il loro profitto; e, legato a quest’ultimo aspetto, l’inganno a cui siamo soggetti quando viaggiamo-viviamo nel web.  Un quadro complessivo che ci sembra produrre un circolo non virtuoso che non fa che  agevolare la stessa logica delle postverità, alimentata da quella del gradimento e dal proliferare delle echo chamber.

 La postverità, va però chiarito, più che alla eliminazione della verità, su cui si potrebbe dialetticamente ragionare, per i meccanismi sopra accennati mira a moltiplicarla, creando così un danno ancora più grave perché incrementa, potenzialmente all’infinito, il numero delle presunte verità rendendo sempre più problematico qualsiasi possibilità di verifica.

  Ipotesi per un domani. Da quanto detto sino ad ora  si possono tuttavia trarre alcuni ipotesi di azione  sia per l’immediato, che per il medio periodo: innanzi tutto la necessità di regole per le grandi corporation del web, che permettano agli utenti di riappropriarsi dei loro dati; in secondo luogo la necessità d una alfabetizzazione generalizzata sul digitale; in terzo luogo l’improcastinabile necessità di ricreare una socialità diffusa  (più impiego e rapporti di lavoro accettabili); e  infine, ma non ultimo in ordine di importanza, l’inderogabile urgenza di tessere una cultura del senso comune impregnata dallo spirito scientifico galileiano (quindi anche riforma della scuola e dell’istruzione universitaria), che aiuterebbe pure i governanti a capire che oggi più che mai i processi storico-culturali sono fenomeni complessi e interdipendenti; e che anche la salute pubblica non è solo un fatto di scienza e fatti, ma anche di valori e di fiducia, che con la scienza e i fatti sono impastati e non separati.

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