Una scuola come diritto e non come “gentile concessione” (di Lorella Villa, presidente CIDI-Cagliari)

 

Negli ultimi decenni la scuola è stata oggetto di politiche di decurtazione dei fondi che conosciamo e delle quali ora constatiamo le devastanti conseguenze. Meno percepibile la portata tragica del processo riformatore che ne ha sfarinato e sgranato il tessuto pubblico, il suo fine politico, riducendola, quando va bene, ad un servizio quasi elargito, concesso dallo Stato ai territori, ai cittadini e alle cittadine.

Queste riforme hanno snaturato il fine che la Costituzione affida alla scuola pubblica: quello di essere il primo grimaldello in grado di rimuovere gli ostacoli alla piena realizzazione di sé, di essere presidio di uguaglianza e democrazia. Si è affermato invece un modello di scuola non organizzata per soddisfare i bisogni della società – come dovrebbe essere la scuola pubblica – ma una scuola pubblica perché “di proprietà dello Stato” e più in particolare al servizio delle politiche degli Esecutivi di volta in volta in carica.

Abbiamo avuto così prima la Legge sull’autonomia scolastica che ha portato certamente a snellire i processi amministrativi ma ha ingolfato le istituzioni scolastiche a livello burocratico fino a saturarle. Soprattutto ha manifestato da subito, specie nei centri urbani più grandi, dove è possibile scegliere la scuola dove iscrivere i figli e nella scuola secondaria di secondo grado per lo stesso motivo, una pericolosissima deriva di autoreferenzialità che ha messo gli istituti in competizione tra loro, in una lotta all’ultimo iscritto, pena la perdita dell’autonomia. Occorre invertire la rotta immediatamente rilanciando e promuovendo politiche che riguardino gli ambiti scolastici e portino a ricucire, ago e filo, il tessuto della scuola pubblica, ormai lacerato e rabberciato.

Abbiamo avuto poi la Legge sulla buona scuola che ha immesso nel sistema una logica sempre più sfrenata nel senso della prestazione e della sua misurazione.

Le logiche del mercato e del capitalismo vogliono che quello che non si può misurare non abbia valore. Non c’è governo in questi anni che non abbia ritoccato il sistema di valutazione di uno degli ordini scolastici, il voto, i giudizi, poi di nuovo il voto e così via o non abbia riformato l’Esame di Stato della secondaria di Secondo grado. L’INVALSI con il suo annuale strascico di polemiche ha assunto l’importanza dei Sacri Penati, egemonizzando tutto il discorso pubblico sulla scuola: la scuola italiana non funziona perché le prove Invalsi non vanno bene, non perché registra tassi di abbandono e dispersione altissimi. Il problema in quest’ottica è non classificarsi verso l’alto nelle prove internazionali di valutazione del sistema scolastico, non il fatto che la scuola approfondisca le condizioni dispari di partenza.

Altro aspetto introdotto dalla Legge sulla buona scuola: il connubio sempre più stretto tra scuola e mondo del lavoro. Anzi no: mondo dell’impresa. Con quella legge è stata introdotta l’alternanza scuola lavoro, oggi PCTO. Anche in questo caso tutta l’enfasi è sulla prestazione. I nostri ragazzi e le nostre ragazze vanno per qualche giorno in un’azienda a imparare i rudimenti del mestiere, voglio ammettere e sperare che sia così anche se so benissimo che in molti casi così non è. Tornano in classe e io chiedo loro: vi hanno fatto vedere il contratto del comparto? No, prof. Qualcuno vi ha detto che esistono le organizzazioni sindacali, le rappresentanze dei lavoratori e delle lavoratrici. Mi guardano con uno sguardo significativamente “bovino”. Qualche tempo fa un ragazzo di 18 anni mi ha chiesto se la Camera del Lavoro fosse l’ufficio di collocamento…. Eppure si ha la pretesa di dire che i nostri ragazzi e le nostre ragazze grazie all’alternanza scuola/lavoro possono conoscere per tempo il mondo del lavoro. Conoscono solo il mondo dell’impresa e della prestazione e iniziano a incamerare l’idea che il lavoro non sia un diritto ma una cosa che ti devi guadagnare gareggiando contro qualcun altro, accettando le regole che ti impongono senza poter discutere e protestare. Questo secondo voi è formare cittadini e cittadine dotati di senso critico? O è allevare polli in batteria pronti a sacrificarsi per il bene del mercato? Grati del salario che viene loro “concesso”?

Perché non chiediamo che gli studenti svolgano obbligatoriamente almeno un terzo del monte ore di PCTO presso le sedi dei sindacati, le camere del lavoro a studiare i contratti collettivi, la legislazione in materia di sicurezza, fatta seriamente, i loro diritti di futuri lavoratori e lavoratrici? E non solo i loro doveri…

Infine l’ultimo trend, la spinta sempre più forte nel senso dell’orientamento. Dall’anno scolastico in corso i Collegi dei docenti dovranno individuare argomenti e attività per almeno 30 ore annuali da dedicare all’orientamento. Si inizierà a “formare” ragazze e ragazzi in senso funzionale al loro inserimento nel mondo del lavoro già dalla secondaria di primo grado, l’ex scuola media. A 11 anni si comincia a formare non il futuro cittadino e la futura cittadina come dovrebbe essere, ma ci si preoccupa di iniziare a formare subito il futuro lavoratore/lavoratrice (o disoccupato/disoccupata), in un’ottica tra l’altro fortemente individualistica e poco basata su una dimensione sociale e di gruppo.

La punta di diamante di questa visione ancillare al mondo dell’impresa da oarte della scuola, è rappresentata dalla “filiera formativa tecnologico-professionale” annunciata da Valditara che prevede il taglio di un anno di studi, esperienze “on the job” fin dai 15 anni, alternanza scuola-lavoro potenziata fino a 400 ore l’anno, ricorso ordinario all’apprendistato di primo livello, insegnanti provenienti dal mondo delle imprese e degli studi professionali, sistema di certificazione delle competenze affidato, neanche a dirlo, all’Invalsi”. Un nuovo canale formativo abbreviato che dovrebbe confluire nei nascenti ITS Academy. I giovani studenti, quelli che non hanno la possibilità di proseguire gli studi universitari, i fragili, etichettati dall’Invalsi, non devono perdere tempo sui banchi: è bene che inizino il prima possibile ad avere una forma mentis adatta al lavoro. Gli studi tecnico-professionali devono garantire la corrispondenza tra domanda e offerta. Lo ha detto chiaramente anche il Ministro Tajani al Meeting di Rimini: “non dobbiamo tutti studiare filosofia e economia; chi può lavorare deve andare a lavorare”. Indovinate chi sono quelli che possono e quindi devono andare a lavorare? Quelli che l’economista Daniele Checci al Festival dell’economia di Trento, alla presenza del ministro Valditara, ha definito “gli sfigati”: quelli che studiano al tecnico e al professionale. Gentile non ha mai sloggiato dalla scuola italiana ma questo è il ritorno in grande spolvero del suo fido scudiero: l’avviamento al lavoro!

E neanche troppo velatamente si sta cercando di far passare un congruo segmento dell’istruzione pubblica dalle mani del pubblico alle mani del privato, e forse anche si sta preparando un nuovo ordine salariale, incastonato nella contrattazione individuale tra lavoratore e datore di lavoro: a cos’altro dovrebbe servire altrimenti la certificazione delle competenze e il portfolio personale dello studente? Come scriveva Franco Fortini nel 1971 “la scuola media superiore per tutti, al più alto livello di qualità didattica è una prospettiva insopportabile per l’ordine tardocapitalistico”: ci hanno messo qualche anno ma stanno riuscendo a scardinare l’impianto della scuola democratica immaginata dalla Costituzione, figlia delle riforme degli Anni Settanta.

Infine un’altra minaccia che mi sento di sottolineare e che la “cultura” di quest’ultimo Governo mi pare stia lentamente ma inesorabilmente iniettando nelle vene stremate della scuola italiana: la difesa del nostro patrimonio culturale in senso identitario e diciamo “nazionale” per non dire nazionalista. L’operazione “Liceo del made in Italy” va proprio in questo senso. Nel senso di affermare, cioè, un’idea di cultura affetta da retroscopia, dalla mancanza di una visione della cultura italiana come qualcosa di ancora vivido e vitale da promuovere, una visione angusta e soffocante di un patrimonio italiano come merce da vendere (anche a noi italiani: non dovevamo venire prima di non si sa bene chi? Avete provato a fare i conti in tasca ad una famiglia di 4 persone che volesse andare a visitare il Museo Archeologico di Cagliari o il Museo di Capodimonte o il Museo egizio di Torino? È un vero lusso la cultura in questo Paese!). E sotto traccia, riaffiora carsicamente, il nostro “razzismo culturale”: gli italiani sono migliori degli altri perché siamo la Patria di Leonardo, Michelangelo, Raffaello e prima ancora dell’Impero Romano…

Ma veramente si può ancora intendere la cultura in questo modo piccino per un mondo piccino, rancoroso, impaurito? Cosa se ne dovrebbero fare i nostri figli e le nostre figlie di una cultura solo identitariamente italiana, nazionale?

Non sarebbe meglio iniziare a concepire un’istruzione e un’educazione per i cittadini e le cittadine del pianeta di domani, che concepisca la cultura nazionale come parte di una cultura umana estremamente differenziata, che promuova la convivenza tra diversità, una cultura che educhi il popolo ad essere insieme nazionale, plurale, cosmopolita, democratico, ecologico e pacifista?

Per finire: torniamo a rivendicare e a chiedere una scuola pubblica come DIRITTO sancito dalla Costituzione, una scuola che promuova una cultura comune per la democrazia. Basta con la SCUOLA intesa come servizio concesso dallo Stato in cambio dell’accettazione delle logiche del profitto, della prestazione, del merito come corsa competitiva ad avere di più perché si è prodotto di più, una scuola solo di orientamento al mercato.

Critica del sistema merito-centrico nell’istruzione (di Alessandro Chitti)
I minori nel decreto Caivano (di Rosamaria Maggio)

lascia qui i tuoi commenti

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.