In Italia la situazione è grave ma non è seria (di Maria Tiziana Putzolu consigliera di parità)

Sulla riva del mare con lo sguardo verso l’orizzonte si scorge una linea azzurra che sfuma, si scolora, si confonde con la linea del cielo e diventa un tutt’uno. Lì, davanti al mare, non scorgi la lieve curvatura perché tu pensi al mare, all’immenso, e ti perdi. Perché sei un essere pensante ma a volte di pensare non hai proprio voglia. E se non fosse per quel leggero sconforto che compare a ogni tornata elettorale ormai da molti anni a questa parte (sia che si sia dalla parte dei cosiddetti vincitori che dei cosiddetti vinti), la ‘cosa’ che non si avverte più, di volta in volta, è quella leggera curvatura che ha la realtà rispetto ai fatti, o a come quei fatti ti appaiono.

Ecco, di fronte a quella curvatura che non vedi perché non vuoi vederla, perché l’illusione dell’immenso che il mare ti restituisce e che nasconde il tuo delirio di onnipotenza è invece un lago salato nel quale si è formata la nostra storia ma dal quale è difficile uscire verso il grande oceano se non nuotando fino almeno allo stretto di Gibilterra o al canale di Suez. Ecco, da quella illusione bisogna uscire e rimettersi i addosso i panni di un realismo pragmatico e guardare ai fatti.

I fatti sono cose semplici: al primo punto oltre il confine c’è una minaccia nucleare che mai in precedenza si era manifestata con tanta potenza e in casa tua, nel tuo paese (e siamo al secondo punto) c’è un immenso parco giochi multimediale (giornali, talk, testate televisive e, soprattutto on line) che ci raccontano in un megascreen senza tregua, senza sosta, senza più fiato e senza un apparente filo logico, gli affanni giornalieri. Il noi.

Noi siamo dentro un clickbyte che mette insieme le partite di pallone con le donne morte in Iran, i leader di partito che si autoflagellano con dirette pubbliche di partito per i risultati elettorali, gli amori falliti di calciatori e soubrette, alcune residue notizie sparute, superstiti del grande evento che è stata la morte di Elisabetta II e della sua ricchissima corte che è servito a nutrire le nostre fantasie e a far naufragare in un attimo gli ideali sulla repubblica con fatica costruiti negli anni, per constatare infine che le monarchie, se non altro, forse, ci fanno ancora sognare.

Noi siamo la guerra che è in atto in Ucraina, noi siamo le donne che muoiono e lottano in Iran per la loro libertà e quelle dimenticate a un anno di distanza dal ritiro delle truppe americane e alleate in Afganistan.

Noi siamo atlantisti e non atlantisti, riformisti e progressisti, termini di cui ai più sfugge (o l’ha perso per strada) il significato.

Noi siamo una povertà dilagante che sì è dentro i dati Istat ma è soprattutto nelle file della ‘gente’ ai servizi sociali dei Comuni che chiede, implora aiuto perché non riesce a sopravvivere.

Noi siamo la destra (sociale) che dice di aver vinto le elezioni (anche se in realtà ha vinto un partito tra quelli di destra), e legittima un pensiero rimasto latente nel nostro paese e che legittimato potrà (lo vedremo) dare voce a una società con i corpi intermedi già ampiamente delegittimati e su cui poggerà le terga.

Noi siamo contro Putin e non ci piace la guerra ma amiamo la guerra più di ogni altra cosa al mondo tanto che durante la pandemia abbiamo usato il suo vocabolario becero e maschilista a ogni piè sospinto.

Noi siamo la rappresentanza politica e la rappresentanza sociale che le urne ci hanno detto che dobbiamo recuperare in mezzo al paese. Un paese che dice di aspirare alla pace, un concetto che una volta univa e che ora invece divide. E che per alcuni è sinonimo di ‘resa’. Noi siamo quelli che pensano che a ogni elezione ci sarà qualcuno che risolverà i nostri problemi come un medico che ti da una medicina miracolosa e che come acqua di Lourdes ti passa il dolore. Subito.

Noi siamo quelli che ‘finalmente una donna al Governo, anzi, la ‘prima’ donna al Governo senza renderci conto che si tratta di un volgare pink washing, dove un’intera classe dirigente è scesa da un carro traballante e si è riparato dietro il calore della fiamma. Alleata con destre europee ed extraeuropee. Una donna sì, ammirevole in quanto a resilienza, ma che nulla ha a che fare con il femminismo. Che appena scesa dal palco, spente le luci di scena asciugata la saliva ai lati della bocca, le urla si appiattiscono, i toni si fanno più soffusi e noi aspettiamo, aspettiamo per capire se il fascismo – che ci dicono «oh che anacronismo!» – sarà sdoganato dalle pulsioni latenti e avrà la sua cartina di tornasole sul piano dei diritti, dell’economia e del lavoro.

Noi siamo un Parlamento che avrà meno donne che in passato, soprattutto nel centro sinistra, e un sistema elettorale che non permette di scegliere i propri rappresentanti, degni del peggior stato banana. E non c’è altro da aggiungere.

Noi siamo un po’ tutto, ma quello che non siamo è quello che davvero ci distingue: non siamo più capaci di unirci nelle cose che contano, di scendere in piazza per le donne in Iran (ci tagliamo una ciocca di capelli che è meglio di niente ma non basta) o per quelle in Afganistan, in Yemen o nei mille angoli del mondo o per le tante che muoiono a mazzi per mano maschile nel nostro paese. O per i giovani reclutati da Putin dalle aree più povere della Russia mandati a morire al fronte.

Noi siamo dentro un lutto per quello che avremo voluto essere e non siamo riusciti a essere, rassegnati e rinchiusi nel nostro bunker interiore, abbozzolati nelle nostre certezze piccolo borghesi perché non riusciamo più a ‘militare’ nelle piazze, nelle università, nei corpi intermedi.

Noi siamo un grande collettivo mea culpa perché in fondo ognuno ha pensato al futuro ma soprattutto al suo, di futuro, e in questa flessione si è infilata quella invisibile curvatura dell’orizzonte, che sfuma tra il cielo e il mare, che ti fa perdere il senso del reale, che ti narcotizza e che dalla riva del mare con lo sguardo che va estasiato oltre l’orizzonte ti rassicura dal terrore della guerra nucleare e ti protegge dalla illusione che niente potrà mai accaderci di male.

Analisi del voto (di Rosamaria Maggio)
Zan, zendegi, azadi. Una protesta annunciata che scuote le fondamenta della Repubblica Islamica (di Alessia Tortolini ricercatrice Facoltà Scienze Politiche Università di Pisa)

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