Regioni: Riforma e attuazione del Titolo V della Costituzione, tra autonomia differenziata e rischio di incostituzionalità (di Franco Ventroni).
- On 08/03/2023
- By Redazione Scuola
- In autonomia differenziata, Costituzione, energia, governo, istruzione, regioni a statuto speciale, sanità, scuola, solidarietà
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“Autonomia differenziata? Un affare per la Sardegna”, parola di Roberto Calderoli
Il dibattito recentemente avviato dalla Scuola di Cultura Politica, relativo alle procedure di attuazione previste dall’art. 116, del Titolo V della Costituzione, rischia di diventare semplicemente una critica al solo Disegno di Legge recentemente approvato dal Governo Meloni su proposta del Ministro per gli Affari Regionali Roberto Calderoli. Credo sia utile, ma anche necessario, richiamare la cornice legislativa tracciata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 passando però in rassegna alcuni antefatti che hanno dato luogo a questa complessa e corposa riforma costituzionale.
Per capire meglio in quale ginepraio ci siamo cacciati farò, quindi, riferimento agli eventi storici e alle riforme operate nell’arco di circa cinquant’anni, durante i quali i vari governi, tra i quali molti di centrosinistra, hanno contribuito in modo determinante ad approvare, tramite vari strumenti legislativi, una riforma realizzata attraverso il decentramento delle funzioni legislative e amministrative alle Regioni e agli Enti locali iniziata, prima con la Legge 16 maggio 1970, n. 281, successivamente con la Legge 22 luglio 1975, n.382 e infine con il Decreto Legislativo 616 del 1977.
Resta però ancora da chiarire quale sia stata la motivazione che ha sollecitato il governo di allora, siamo alla fine degli anni ’90, a farsi promotore di una “ulteriore devoluzione delle competenze alle regioni”. La domanda è lecita anche perché tale “devolution” venne proposta e approvata dopo circa vent’anni dal completamento dell’ordinamento regionale che aveva assecondato in pieno tutte le richieste della periferia, ma soprattutto dopo che i rapporti fra Stato e regioni si erano ormai stabilizzati e le regioni a statuto ordinario, seppure con qualche difficoltà, iniziavano ad esercitare stabilmente le competenze ad esse assegnate.
La riforma, fortemente voluta dall’allora Ministro della Funzione Pubblica Franco Bassanini, approvata con la Legge 15 marzo, 1997, n.59 ( Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), tendeva a promuovere un consistente decentramento amministrativo di funzioni statali alle Regioni e agli Enti locali, nella convinzione di ridurre in tal modo il peso burocratico degli uffici periferici dello Stato e di snellirne le procedure. Tale iter venne concluso con un Decreto attuativo del 1998.
Con il trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni, aumentarono però a dismisura i centri di potere ostacolando così, anche per responsabilità evidenti di molte Amministrazioni periferiche, il vero decentramento amministrativo che si sarebbe, invece, dovuto attuare a valle attraverso un consistente trasferimento di deleghe agli Enti locali (Province, Comunità montane e Comuni) presenti nel nostro Paese.
Tale decentramento amministrativo contribuì non poco ad innescare, anche a seguito delle farneticanti proposte separatiste-secessioniste di Umberto Bossi e di alcuni ideologi della Lega Nord, un acceso dibattito tra le forze politiche convinte che si dovesse dare immediato avvio ai lavori parlamentari per procedere alla modifica del Titolo V della Costituzione. Tutto ciò per estendere alle 19 regioni a statuto ordinario la potestà legislativa primaria ed esclusiva, su alcune specifiche materie, anche in virtù delle mutate condizioni economiche e dei rapporti autonomi che le Regioni iniziavano ad avere con l’Unione Europea per la realizzazione di programmi complessi intrecciando risorse regionali, statali e comunitarie.
L’accelerazione della riforma venne poi giustificata dal fatto che la sinistra, che in quel momento governava il Paese (Governo Amato), doveva in quella circostanza storica frenare le spinte secessioniste portate avanti dalla Lega Nord. Prende corpo, quindi, oltre ad un serrato dibattito tra costituzionalisti e politici, anche un’idea maligna e diversa di decentramento imperniata prevalentemente sulla devoluzione proposta dalla Lega Nord alla quale interessava, soprattutto per le regioni a statuto ordinario, il trasferimento della potestà legislativa esclusiva nelle materie che potevano maggiormente avvantaggiare le cosiddette “regioni padane”, anche in ragione della loro tipicità storico-territoriale, come l’istruzione, la polizia regionale, la tutela della salute e i settori produttivi.
Oltre al dibattito tra le forze politiche e tra gli stessi costituzionalisti, comparve allora anche una copiosa produzione giuridica, tendente ad enucleare proposte autonome di riforma costituzionale che andavano ben oltre la semplice devoluzione delle competenze legislative alle regioni a statuto ordinario. Fecero capolino, infatti, i temi del presidenzialismo, della forma di governo semipresidenziale e l’ennesima proposta di modifica del sistema elettorale, dimenticando il fatto che occorreva innanzitutto dare ancora piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma denominata “Federalismo a Costituzione invariata” approvata con la legge 59/1997.
Si arriva però ad una svolta quando, dopo un accordo tra PDS e Forza Italia e Popolari, viene costituita una Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, guidata da Massimo D’Alema, chiamata informalmente “Bicamerale” per lo studio e la presentazione di una riforma della Costituzione. La Commissione procedette in tal senso e dopo una travagliata stagione di lavoro elaborò, con la mediazione dei partiti maggiormente rappresentativi, un progetto complessivo che trovò sintesi in una proposta di riforma unitaria.
Il 30 giugno 1997 la Bicamerale vota il testo di riforma completo, comprensivo di una parte sulla forma di Stato e di governo; ad esso vengono preannunciati in assemblea alla Camera 42.000 emendamenti. Dopo molti colpi di scena, con la formazione e il disfacimento di alleanze inedite fra partiti di destra e di sinistra, il 1º febbraio 1998 Berlusconi sorprende tutti cambiando radicalmente, con la richiesta di cancellierato e un sistema elettorale proporzionale, la posizione sostenuta da Forza Italia fino a quel momento. A questa richiesta Berlusconi fa seguire un ultimatum quattro mesi dopo, con l’effetto pratico di rovesciare il tavolo delle trattative e di abbandonare la Commissione.
Pur avendo rappresentato un’importante sede di riflessione e di proposta sulle prospettive di miglioramento dell’ordinamento costituzionale italiano, il tentativo di procedere in modo unitario per questa via, alla modifica della Costituzione, non ebbe successo. Tale esperienza rappresentò, comunque, la prima cornice legislativa che contribuì poi ad innescare e ad avviare i lavori che porteranno, alcuni anni dopo, alla riforma costituzionale del Titolo V, che venne approvata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, lasciando però per strada il presidenzialismo e le varie forme di governo.
I temi trattati nella “riforma” sono molteplici e ognuno di essi reca al proprio interno delle specificità che se affrontate totalmente ci porterebbero molto lontano. Lo spazio di dibattito a disposizione e le polemiche sollevate dalla proposta Calderoli, recentemente approvata dal Governo, mi costringono in questa sede a limitare le considerazioni a pochi argomenti. Credo che i termini autonomia differenziata, potestà legislativa esclusiva alle regioni a statuto ordinario, livelli essenziali delle prestazioni, siano sufficienti per guidarci nella discussione.
Come sapete, con la riforma, alle Regioni è stata riconosciuta l’autonomia legislativa, ovvero la potestà di dettare norme di rango primario, articolata su tre livelli di competenza: esclusiva o piena (le Regioni sono equiparate allo Stato nella facoltà di legiferare); concorrente o ripartita (le Regioni legiferano con leggi vincolate al rispetto dei principi fondamentali, dettati in singole materie, dalle leggi dello Stato); di attuazione delle leggi dello Stato (le Regioni legiferano nel rispetto sia dei principi sia delle disposizioni di dettaglio contenute nelle leggi statali, adattandole alle esigenze locali).
Allo Stato, invece, compete solo il potere esclusivo e pieno, circoscritto alle materie di cui all’elenco del 2° comma dell’art. 117 della Costituzione. Il 3° comma individua, inoltre, i casi di potestà legislativa concorrente tra lo Stato e le Regioni. Per tutte le altre materie, non indicate e non rientranti in quelle indicate nel 2° e 3° comma, le Regioni hanno quindi potestà legislativa piena.
Vorrei però attirare la vostra attenzione su quanto introdotto, in modo frettoloso e imprudente, dal terzo comma dell’art. 116 Cost., che prevede la possibilità di concedere alle Regioni a statuto ordinario, attraverso la legge dello Stato, quelle forme e condizioni particolari di autonomia, proprie delle Regioni a statuto speciale in virtù delle previsioni del 1° comma dello stesso articolo. Tale devoluzione potrà avvenire per un numero smisurato di materie (circa 23), attraverso la legislazione ordinaria e su iniziativa unilaterale di ciascuna regione che può avviare un negoziato con il governo tramite un’intesa preliminare.
Le Regioni che la ottengono possono perciò, d’intesa con il Governo, avocare a sé in via esclusiva, alcune funzioni (sanità, istruzione, energia, ambiente, politiche europee fra le altre) trattenendo le tasse pagate dai cittadini sui propri territori di riferimento, per destinarle alla realizzazione dei servizi.
Nasce in questo modo la moderna autonomia differenziata. Anche perché se ci pensate bene la vera autonomia differenziata è nata in realtà nel 1948 con l’istituzione delle Regioni a Statuto Speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Pur essendo tra quelli che considerano l’articolazione delle autonomie regionali e dei poteri decentrati agli enti locali una ricchezza della democrazia italiana, sono più che convinto che la mediazione al ribasso, operata dai partiti politici nell’approvazione della legge n.3/2001, costituisca una cornice costituzionale contraddittoria e complessa che rovescia completamente l’impostazione dei costituenti, sia nell’indicare le competenze delle regioni attraverso la loro potestà legislativa primaria, sia nel delineare il ruolo e i compiti degli enti territoriali (Province, Comuni, Città metropolitane), confermando così la spoliazione definitiva delle competenze alle province e assegnando con molta confusione un ruolo decisivo alle città metropolitane lasciando ai partiti e alle consorterie locali la scelta degli accorpamenti territoriali.
Sono, quindi, convinto che le forze politiche abbiano sottovalutato la pericolosità di alcune parti della riforma, destinata peraltro ad incidere quotidianamente sia nell’ambito della fruizione dei servizi sociali e sanitari, sia sul nostro disastrato sistema scolastico. Tale riforma consente, infatti, alle regioni a statuto ordinario, attraverso intese di natura pattizia con il governo centrale, di poter esercitare la potestà legislativa esclusiva e concorrente su materie strategiche determinando così possibili conflitti di competenza ma soprattutto, in grado di generare divisioni di tipo territoriale e politico nel Paese. Non oso poi immaginare cosa succederà quando le regioni, economicamente più forti, solleveranno l’asticella chiedendo maggiori competenze e la riscossione nei propri territori di una quota dei tributi dello Stato.
Oltre alla potestà legislativa delle Regioni, la riforma costituzionale ha apportato, inoltre, anche massicce modifiche che hanno mutato alla base il rapporto intercorrente fra i diversi livelli di governo territoriale, nonché il rapporto fra questi e lo Stato. Una parte consistente di tali modifiche è interamente dedicata, infatti, agli enti territoriali (Province, Comuni, Comunità montane e Città metropolitane) cioè ai soggetti pubblici dotati di autonomia politica e amministrativa che esercitano i loro poteri nell’ambito di un territorio definito, il quale rappresenta non solo il limite spaziale della loro sfera di competenza, ma ne è anche un elemento fondamentale e imprescindibile nel decentramento e nella erogazione dei servizi al cittadino.
Alla luce di quanto esposto nelle premesse si può certamente affermare che la legge n. 3 del 2001 costituisce la più corposa ed estesa riforma costituzionale, finora approvata dall’entrata in vigore della Costituzione, perché oltre a trasformare alla radice tutto l’assetto del governo territoriale, sovverte le tradizionali competenze in materia di potestà legislativa assegnate alle regioni a statuto ordinario, impattando anche in modo significativo sull’assetto istituzionale della Repubblica. Hanno quindi ragione i 60 sindaci della Provincia di Catanzaro quando affermano che «ciò costituisce una chiara rottura dell’unità della Repubblica e un indebolimento nel campo dell’eguaglianza dei diritti con conseguenze devastanti per la scuola, la sanità, le politiche ambientali ed energetiche, i beni culturali, lo sviluppo delle infrastrutture e finanche per i contratti nazionali di lavoro».
Ma ciò che più preoccupa è che la riforma del 2001, in modo frettoloso e imprudente, ha consegnato alle regioni a statuto ordinario, in particolare a quelle del fronte separatista-secessionista, oltre agli attrezzi da scasso, anche la combinazione per aprire la cassaforte costituzionale, minando cosi alla base ciò che i costituenti avevano costruito nel prevedere un sistema partecipativo e democratico attraverso le autonomie locali. L’art. 5 recita, infatti: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Eravamo tutti convinti che questa riforma, “dormiente” per circa vent’anni, fosse già archiviata in soffitta. Invece le regioni sostenitrici della prima ora, che sono anche promotrici di pre-intese, come Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, salvo qualche pentimento dell’ultima ora, non hanno ancora mollato la presa. Gli stessi partiti e movimenti sia di destra, che di sinistra, seppure con sfumature diverse, hanno più volte sollecitato il varo di una apposita normativa per l’attuazione della nuova autonomia differenziata. Lo stesso Governo Draghi, l’ha inserita nel Documento di Economia e Finanza, predisponendo con il ministero per gli Affari regionali una bozza di legge quadro sottoposta poi all’esame della commissione bicamerale.
Non dobbiamo, quindi, stupirci se il prorompente e nefasto riformatore Calderoli, più noto come «guastatore legislativo seriale», dopo aver imperversato con la sua legge elettorale denominata “Porcellum”, si prepari ora, con il suo disegno di legge sull’autonomia differenziata, a smontare pezzi di Stato e a rabberciare la potestà legislativa delle regioni a statuto ordinario, attraverso una procedura negoziale con il Governo centrale che, se attuata, rischia di dividere il Paese in due tronconi.
A Calderoli, quindi, la responsabilità per i contenuti complicati del disegno di legge presentato in fretta e furia prima delle elezioni regionali; ad altri però la responsabilità e la colpevolezza di aver partorito una contorta riforma costituzionale, declinata da molti come federalista, da altri autonomista che oltre a contribuire, in modo determinante, a smantellare pezzi consistenti di competenza statale, favorisce e rafforza alcune regioni ricche anche a discapito delle regioni più povere, creando cosi anche un profondo solco divisivo nel Paese.
Lo stesso legislatore costituzionale, in previsione delle disparità territoriali che tale riforma avrebbe potuto creare, afferma, che spetta allo Stato, in via esclusiva, «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Su questo argomento occorre precisare che, nonostante la previsione di istituire i Livelli essenziali delle prestazioni (i famosi Lep), attraverso la legge di Bilancio con gli artt. 791 e seguenti, la stragrande maggioranza dei costituzionalisti italiani sostiene che tale tentativo, senza cospicui fondi statali da investire, porterà a livelli minimali di prestazioni soprattutto nelle regioni più povere, negando quindi il principio di uguaglianza previsto dall’ articolo 3 della Costituzione che rischia di aprire la strada a ricorsi per palese incostituzionalità.
Qui di seguito quindi procederò, scusandomi per la schematicità, ad analizzare i difetti più evidenti della proposta Calderoli:
Procedura di approvazione. Si tratta di un tortuoso percorso di approvazione necessario per attuare il trasferimento delle funzioni che viene fatta attraverso una legge ordinaria “rafforzata” e non con una legge costituzionale (Art. 138 Cost.), come il peso della materia richiederebbe. Tutto ciò, infatti, oltre a tagliare fuori il Parlamento e soprattutto i cittadini da un approfondito confronto, riduce la procedura ad un semplice patto tra Ministero degli Affari regionali e regione interessata, infine la protegge dal referendum abrogativo rendendola quindi di fatto irreversibile perché un suo cambiamento richiederebbe un nuovo accordo che la regione dovrebbe accettare.
LEP- Livelli essenziali delle prestazioni. Il governo, attraverso la legge di Bilancio si è preso un anno di tempo per definire le materie Lep e quali dovranno essere i livelli delle prestazioni da assicurare. Vengono determinati attraverso un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Quello adottato è un metodo inadeguato, dilatorio e superficiale per affrontare uno dei nodi cruciali della riforma. La norma su questo è abbastanza chiara: senza garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) non si possono fare trasferimenti di competenze. Tra l’altro in un Paese in cui i servizi per i cittadini sono già penalizzati da disparità, più o meno gravi, i Livelli essenziali devono obbligatoriamente prevedere anche le risorse necessarie per colmare i divari già esistenti.
Attribuzione delle risorse. Il disegno di legge prevede una attribuzione non omogenea delle risorse (poteri, personale, finanziamenti) a livello nazionale attribuendo la competenza e le relative decisioni ad una Commissione paritetica Stato – Regione (Ministero Affari Regionali e Autonomia, Ministero Economia e Finanze, Regioni) sottraendola quindi ad una eventuale approvazione parlamentare. Nonostante le rassicurazioni di Calderoli, la riforma richiederà risorse ingenti, sia in termini economici ma anche disponibilità di personale.
Attribuzione delle materie. Nessun limite al trasferimento delle materie previste, nessuna preclusione. Lo conferma l’art.2 della riforma, al comma 2 quando afferma che la richiesta delle regioni “può riguardare una o più materie o più ambiti di materie. Siamo quindi alla versione “regionalizzata” delle competenze. Qualunque amministrazione può chiedere o ambire ad ottenere, ormai a sportello, altre competenze. Inoltre, nel testo formulato da Calderoli, nel tentativo di garantire la coesione nazionale, le Regioni non hanno al momento delle limitazioni nella richiesta di competenze esclusive.
Fisco e tributi. Le risorse necessarie per l’attuazione delle competenze sulle varie materie saranno attribuite “attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi maturati nel territorio regionale”. Ciò significa che per mandare avanti le funzioni trasferite su una o più materie, le regioni possono trattenere parte della fiscalità generale dando naturalmente per scontato che quelle entrate siano maturate nel territorio di competenza. Come potete ben capire siamo ancora alle complicazioni semplici. I dettagli saranno definiti di volta in volta dalle leggi che approveranno le intese con le regioni.
Estensione dell’autonomia a Regioni a Statuto Speciale e Province Autonome. L’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 prevede che, sino all’adeguamento degli Statuti speciali, le nuove norme del Titolo V della Costituzione sulle funzioni e i poteri di Regioni ed Enti Locali) si applicano anche alle Regioni Speciali e Province autonome “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. Si rileva a tale proposito che buona parte dei costituzionalisti italiani ha escluso che questa clausola consenta di applicare l’autonomia differenziata anche alle regioni speciali. Il Ministro per gli Affari regionali ha dichiarato, invece, che l’art. 10 ricomprende tutto il Titolo V, ivi compreso il nuovo Art. 116. Pertanto, ha affermato Calderoli, le norme di attuazione, anche in questo caso, saranno applicate seguendo i dettami della legge costituzionale di riforma.
Tutto ciò, a mio modesto parere, crea grossi problemi nella gerarchia delle fonti giuridiche e all’interno di queste viene negato, soprattutto in alcuni casi di specie, il ruolo primario dello Stato nella gestione dei servizi essenziali (sanità, scuola), creando cosi un indecifrabile mosaico a colori che rischia di travolgere le regioni e i soggetti più deboli della nostra società.
La norma di attuazione, ideata e proposta da Calderoli, darà luogo attraverso un percorso irreversibile, ad una babele giuridico-istituzionale da cui sarà difficile venirne fuori, precludendo cosi anche una seria discussione su altre ipotesi di riforma sia in senso federale che autonomistico.
Ritengo che sia molto utile avviare nel contempo la discussione per capire se la riforma del 2001 sia più congeniale, in particolare nella nostra regione, al federalismo, alla nuova autonomia differenziata, oppure a soluzioni indipendentiste nazionalitarie. Tale dibattito, per condizioni storiche, economiche e sociali ci porta in questo particolare momento un po’ lontano.
Non intendo però sottrarmi al confronto e rimango comunque sull’argomento. Resto perplesso quando Tonino Dessì afferma sul suo blog “Ribadisco che la questione per la Sardegna resta quella di una soggettività istituzionale il più federalista possibile. Sono federalista anche in ordine all’evoluzione dell’impianto complessivo della Repubblica. Il federalismo non è,naturalmente, la secessione dei territori più ricchi nè la perpetuazione……. Il federalismo implica solidarietà, perequazione, capacità di un paese di essere un “sistema” complessivamente equilibrato. Caro Tonino, purtroppo il disegno di legge Calderoli, già approvato dal Governo, oltre a non prevedere ipotesi federaliste fedeli ai tuoi principi, “contiene previsioni talmente esorbitanti e squilibrate da minare la coesione finanziaria e conseguentemente quella economica e sociale del Paese. Se cosi fosse andranno efficacemente contestati e contrastati i contenuti concreti e perfino l’intero impianto del disegno di legge”. Questo è quanto da te affermato in un lucidissimo intervento, nel febbraio 2019, su “Democrazia Oggi.”
Sulle istanze indipendentiste e nazionalitarie ma anche sulle ipotesi federaliste tracciate nel recente intervento di Fernando Codonesu condivido quanto affermato da Rosa Maria Maggio nel suo recente intervento sul sito della Scuola di Cultura Politica.
Lo confesso io resto ancorato, per formazione e tradizione giuridica, al vecchio format costituzionale tracciato dall’art. 5, che rappresenta sempre e comunque un’ancora di salvezza rispetto agli assalitori seriali a caccia di ulteriori competenze da esercitare e relative quote di tributi da riscuotere, anche perché molti di questi (soprattutto i leghisti della prima ora) restano in attesa di ipotesi secessioniste per poi costruire nel nord – est una grande regione cuscinetto che possa presto rappresentarli anche in Europa.
Nonostante le differenziazioni ritengo che ci si debba tutti impegnare perché tale riforma possa rientrare nell’alveo proposto dai nostri padri costituenti. Occorre, quindi, soprattutto nell’immediato costruire in via prioritaria un argine per fermare questo malefico disegno perché, mentre noi discutiamo sui massimi sistemi, Calderoli e la Banda Bassotti leghista, di fumettistica memoria, stanno portando via, oltre ai nostri soldi e gioielli di famiglia, anche la cassaforte.
Pertanto, pur non condividendo tutto quanto proposto dal Comitato nazionale dei costituzionalisti, ritengo che in questo momento la proposta di modifica al Titolo V rappresenti la base giuridica per modificare l’impianto della legge costituzionale n.3 del 2001, ma anche una chiara e forte azione politica aggregante per opporsi in modo significativo al Disegno di legge per l’attuazione proposta dal Ministro Calderoli.
Per questo è necessario, cosi come proposto da molti, intensificare la raccolta della 50.000 firme necessarie per contrastare alla radice la riforma prevedendo, oltre alla replica di alcune conferenze-dibattito nell’intero territorio della Sardegna, anche la realizzazione di una raccolta firme con dei banchetti nell’Area Metropolitana di Cagliari.
Posso parlare senza peli sulla lingua? La Riforma D’Alema (non Bassanini perché Bassanini l’ha abiurata) del Titolo V della Costituzione approvata con uno scandaloso referendum senza quorum da circa il 21% degli elettori italiani (degli elettori, non dei votanti) fu una schifosa porcheria per compiacere l’anti italiano Bossi e ha fatto soltanto danni (e qui ne avrei parecchio da dire). Ma ancora più schifoso fu il comportamento di tutti coloro sedicenti “numi tutelari” della Costituzione che nel 2016 votarono NO insieme a tutta la Destra post, ex, neo Fascista, M5S del Vaffa!! compreso. A questi sedicenti “numi tutelari/cattivi maestri” della Costituzione non importava NIENTE; volevano solo silurare Renzi. Padronissimi; io Renzi non l’ho mai votato, mai, ma mi vanto (e dite pure che la mia é una vanteria; me ne vanto!!) di sapere distinguere le antipatie, anche profondissime e radicali, dai contenuti. Era perfetto il Quesito Referendario? No; che cosa é che é perfetto? Ma almeno permetteva di liberarci dalla schiforma D’Alema. Diceva Nenni: “la politica non si fa con i sentimenti; figuriamoci con i risentimenti”. Ecco, appunto. Hanno silurato Renzi, benissimo, e hanno ottenuto il governo Lega/5S; chissà come gli é piaciuto!!